EXTRA MUSIC MAGAZINE

Branduardi, il cammino dell'anima

di Alfredo Franchini

 La musica dell’anno Mille, scritta con note quadrate su una sorta di pentagramma, risuona nell’ultimo disco di Angelo Branduardi, “Il cammino dell’anima”, tratto dall’opera originale di Hildegard Von Bingen, la monaca tedesca che è stata un medico, una scienziata, una musicista e una femminista durante il Medio Evo, tanto da diventare poi uno dei punti di riferimento del Movimento delle donne negli anni Settanta del Novecento. Se è vero che ci sono solo due tipi di musica, una fatta per pregare e l’altra per ballare, non ci sono dubbi che qui si celebra la liturgia della spiritualità: “La musica è una visione astratta”, sostiene Branduardi, “e per questo è vicina all’Assoluto”; così per l’autore della Fiera dell’est comporre la lunga suite, i nove brani che compongono l’album, è stato un passo ineluttabile. I testi, tradotti dal latino nella maniera più filologica possibile, ci mettono di fronte a una rappresentazione teatrale introdotta dal coro dei Profeti, cui presta la voce Cristiano De André, seguita dalla discussione tra la Virtù e il diavolo i quali hanno in palio la salvezza dell’anima. La musica dell’anno mille – assicura Branduardi – era bellissima ma presentava un grande problema: mancava l’armonia, era musica “verticale”, priva di quegli accordi che l’autore della Fiera dell’est ha voluto inserire per rendere divulgativa l’opera di Hildegard. La suite si apre con un Preludio che, in realtà, è un’elaborazione del coro della Basilica Ortodossa di Mosca: Branduardi ha alterato le tonalità e ha aggiunto una serie di effetti, un po’ alla Stockhausen. Mosca non c’entra con Hildegard ma Branduardi ha voluto creare con la musica ortodossa che lui predilige la perfetta atmosfera per dare il là all’amico Cristiano De André il quale apre il disco. Un incontro importante tra due polistrumentisti, entrambi diplomati in violino al Paganini di Genova, tutti e due, sia pure con interessi diversi, sempre alla ricerca di nuove profondità musicali. Il nuovo disco del menestrello autore di pagine entrate nella memoria collettiva è un viaggio, un viatico per la spiritualità. Un lungo racconto che ha per obiettivo l’arrivo di sconfiggere il male da parte della virtù e il cammino passa anche per due brani strumentali; nell’album compaiono chitarre acustiche, classiche, elettriche e persino una resofonica; poi basso, batteria, fisarmonica e i fiati ma anche strumenti antichi come la viella, antenato della viola e il traversiere. Infine, un’orchestra con tanti violini, viole, violoncelli e contrabbassi. È proprio la grande orchestra che conclude “L’estasi”, una sorta di inno alla gioia per esaltare la “madre dolcissima”, la donna creatrice, capace di sconfiggere il serpente. Hildegard Von Bisten fu una monaca atipica: con la Chiesa dell’anno Mille in grave difficoltà ebbe la capacità di confrontarsi con imperatori e Papi; in uno dei secoli più bui per le donne ebbe il coraggio di far togliere il velo alle suore. Passione e spiritualità vennero riconosciute da tutti e quando morì, a ottant’anni, iniziò il processo di canonizzazione che s’interruppe subito perché considerata dai vertici ecclesiali una donna “strana”, da mettere al rogo per molti. Ci vollero mille anni perché la Chiesa le riconoscesse i meriti: fu Joseph Ratzinger a proclamarla santa e nominarla Padre della chiesa, titolo che nella storia è andato solo ad altre tre donne. Per Hildegard l’anima è sinfonica e la musica non avrebbe bisogno di parole perché legata alla religione; un concetto caro a Branduardi che qualche anno fa dedicò un concept album a San Francesco. Dal 16 ottobre, il Cammino dell’anima sarà portato in un tour che partirà da Zurigo e attraverserà Svizzera, Belgio, Austria e Germania per arrivare in Italia. In programma nel prossimo anno la pubblicazione di un cofanetto con tre dischi in vinile: Futuro antico 1, L’infinitamente piccole e l’ultimo lavoro. Tre dischi legati alla spiritualità e a una visione dolorosa: “L’ispirazione”, dice Branduardi, “parte sempre da uno stato di sofferenza per arrivare alla creazione”. E rivela che lui, diplomato in violino con dieci anni di studio alle spalle ma in realtà polistrumentista, quando compone non usa mai uno strumento per evitare il rischio di limitarsi o adoperare armonie superflue. “Scrivo i suoni che ho in testa e li metto da parte e solo dopo un po’ di tempo, comincio ad armonizzarli”. Forse per questo, per scrivere Il cammino dell’anima, Branduardi, dopo aver letto “Ordo virtutum”, l’opera originaria, ha impiegato un anno per la stesura delle partiture e altri tre mesi per le registrazioni. Il futuro antico ricomincia da qui.

 

Pubblicato su Extra Music Magazin, 16 Ottobre 2019

Carloforte, la musica per il cinema sotto le stelle

di Alfredo Franchini

 Da tredici anni la musica abbraccia il cinema sotto le stelle di Carloforte, l’isola che si trova a dieci chilometri dalla Sardegna e che fu colonizzata nel 1700 da una colonia di genovesi, anzi di pegliesi respinti dagli arabi. Per sei giorni, U Pàize, come viene chiamata Carloforte nel dialetto ligure-tabarchino, ospita il festival “Creuza de ma”, diretto dal regista Gianfranco Cabiddu, dedicato alla musica per il cinema. Una manifestazione davvero unica; ma se ci fermiamo un momento a riflettere scopriamo che oggi il cinema è il maggiore committente di musica. Nel passaggio dal CD allo streaming è cambiato tutto, sono comparsi nuovi padroni del mercato ed è scaturito un modo differente di ascoltare e persino di comporre. La musica per il cinema ci riporta in chiave moderna alle Corti e nutre di vita nuova il teatro musicale. Il festival di Carloforte celebra quella particolare musica che ha il compito di suggerire a chi assiste alla proiezione di un film i sentimenti e le azioni degli attori in scena. Ci sono musicisti che, grazie alle colonne sonore, sono diventati star internazionali, altri che con il potere di una colonna sonora sono riusciti ad affermare la propria identità.

A Carloforte, sono in programma sei giornate piene di incontri, di proiezioni cinematografiche e di musica. Ci sono gli attori, Angela Fontana e Michele Riondino, il duo di compositori Pivio e Aldo De Scalzi, e i registi, Marco Danieli, Antonello Grimaldi, Bonifacio Angius e il padrone di casa, Gianfranco Cabiddu, reduce dal successo di “Il flauto magico di Piazza Vittorio”, il film musicale da lui diretto con la partecipazione della cantante-attrice Petra Magoni. A cucire un po’ tutti gli eventi è Neri Marcorè, a sua volta attore e cantante. Da molti anni a questa parte esiste in Sardegna una nouvelle vague di registi e Cabiddu ne è un esempio con l’incetta di premi fatta con  “La stoffa dei sogni”, il film  che vedeva tra gli attori Sergio Rubini e Ennio Fantastichini. E quest’ultimo, purtroppo scomparso, sarà ricordato con una proiezione speciale nella sezione notturna di Creuza de ma.

Come ricorda il titolo, il festival si tiene nel nome di De André e quest’anno sarà presentato da Gianfranco Cabiddu, regista di Faber in Sardegna, un cofanetto appena pubblicato da Castelvecchi contenente il Dvd e il libro del critico musicale Enzo Gentile, “Faber in Sardegna raccontato da amici e colleghi”. C’è da dire che Fabrizio aveva col cinema un rapporto particolare perché, da lettore accanito, preferiva leggere un libro. In ogni caso, propendeva per il film storico, come poteva essere La presa del potere di Luigi XIV. In compenso, ha avuto tra gli amici più cari il regista Marco Ferreri e si dice che l’ispirazione del film “La grande abbuffata” sia scaturita dalle cene che si tenevano nella casa di Portobello di Gallura, ospiti anche Tognazzi e Mastroianni. Negli anni Settanta Fabrizio mi disse, non so quanto seriamente, che un giorno avrebbe voluto scrivere una colonna sonora e nel 1988 realizzò con Mauro Pagani la musica di Topo Galileo. Doveva essere solo l’inizio ma è rimasto un episodio. Gianfranco Cabiddu spiega: “A Creuza de ma, la musica del film non è musica di servizio, cioè quella musica che vive solo in funzione di un film ma è quella musica che se improvvisamente venisse a mancare tutto il cinema crollerebbe di schianto, privato di quell’aura indicibile che è talvolta necessaria nelle cose dell’arte, anche quella più popolare. Noi ci collochiamo in quella terra di mezzo di ricerca e studio e di godimento, indagando sia il momento della creazione che il momento della fruizione quando si spegne l’immagine e si accende il concerto”.

La musica non è simbolica, diceva Fabrizio De André: rappresenta se stessa, anticipa la ragione ma può vivere assieme alle immagini. E nelle colonne sonore possiamo ritrovare il significato delle cose. Un po’ come accade per la musica del circo, dei clowns, scritta dal sommo Nino Rota per Fellini il quale avvertiva in quelle note la sensazione di una vita fuori dalla vita: il circo è un modo di vivere e la musica ce lo testimonia.

Nel festival non manca la parte della formazione, avviata tre anni fa con il Corso di scrittura di musica per cinema, dedicato a Sergio Miceli e guidato da Franco Piersanti, con la presidenza onoraria di Ennio Morricone. In collaborazione con il Centro sperimentale di cinematografia, il festival vara la seconda edizione del Cine Campus di musica per il cinema con un incontro metodologico degli allievi del secondo anno classi di suono, montaggio, regia. Il responso che arriva da Carloforte è che l’undicesima musa è più viva che mai. E le suggestioni aumentano con il concerto che viene eseguito al tramonto da Marcella Carboni, (arpa), Simone Alessandrini, (sax), e con lo scouting sonoro di Stefano Campus; si suona all’interno di un’oasi naturale, Capo Sandalo, raggiungibile attraverso una creuza de ma.

Pubblicato su Extra Music Magazine, 13/9/2019

Dori: "Fabrizio e Battisti, quel disco mancato"

di Alfredo Franchini

Ve l’immaginate un disco scritto e cantato da Fabrizio De André e Lucio Battisti? No, non è fantamusica: la possibilità che i due collaborassero c’è stata davvero. Lo ha rivelato Dori Ghezzi, per un quarto di secolo compagna di Fabrizio De André, durante la presentazione del suo libro “Lui, Io, Noi” nella piazzetta di Porto Cervo. Per carattere, Dori, pratica e positiva, è propensa a guardare al futuro ma sull’incontro musicale che avrebbe cambiato il corso della musica italiana, emulando la coppia Lennon-McCartney, ha un forte rammarico: “Rimpiango di non aver fatto in modo che Fabrizio facesse un disco insieme a Battisti”, afferma Dori Ghezzi, “avrebbero fatto qualcosa di straordinario”. I tempi coincidevano, si poteva fare o almeno provare, spiega Dori. La notizia è una bomba perché negli anni Settanta il mondo di De André era agli antipodi di quello di Battisti. Erano anni plumbei e con troppi pregiudizi ideologici. I cantautori erano visti dai giovani come filosofi in grado di dare loro le risposte sulla vita; Battisti che i testi non li scriveva e cantava solo d’amore nei versi di Mogol era considerato un ottimo musicista ma disimpegnato. Da qui la leggenda che tutti compravano i suoi dischi ma molti li nascondevano sotto il braccio, nel fascio dei giornali; una leggenda avvalorata da un comunicato delle Brigate rosse nel quale citavano in modo inconsapevole un verso di Lucio molto in voga: “le discese ardite e le risalite”. In realtà, le cose non stavano così. Fabrizio De André, pur avendo sempre dato maggiore attenzione ai testi, in musica era curioso e pronto ad innovare: se prendete i suoi tredici album vi renderete conto che ogni lavoro apre e chiude un discorso musicale, passando da un’orchestra con ottanta elementi in “Tutti morimmo a stento” al rock della Pfm per approdare all’etnico di Creuza de ma che avrebbe dato una bella scossa alla musica italiana degli anni Ottanta. Per quanto riguarda Battisti, la sua irruzione sulla scena musicale fu pari alla forza di un ciclone, una sorta di rivoluzione come se fossero nati i Beatles italiani. Di Battisti, Dori era grande amica e racconta: “Avevamo con Lucio una complicità di gusti musicali che ci ha uniti nel tempo. Spesso mi faceva ascoltare i suoi dischi in anteprima ma anche di altri che lo avevano entusiasmato”. Battisti alla fine degli anni Sessanta frequentava la casa di Dori. “Da fratello s’interessava con affetto della mia vita privata, mi dava consigli o mi sconsigliava disapprovando alcune storie che avevo avuto nel passato. Un giorno sentì parlare di me e Fabrizio e mi domandò se fosse vero. Io gli risposi: me lo chiedo anch’io perché non avevo la certezza che Fabrizio fosse una realtà. Con quel suo modo brusco mi disse: “A sentire i pettegolezzi tutti dicono che per lui sarai una botta e via e invece penso che non sarà così”. L’amicizia con Battisti sarebbe durata nel tempo e una volta – siamo a Gibellina nell’autunno caldo del 1969 – Dori è sul palco e canta Casatschok, il suo primo grande successo, quando da dietro compare Battisti che improvvisa un accompagnamento con un trombone. Il mondo di Battisti sfiora quello di De André anche perché ci sono diverse persone che li accomunano. Il primo è Giampiero Reverberi, straordinario compositore che alla Ricordi arrangiò molti dischi sia di De André che di Battisti; poi tutti i musicisti che sarebbero diventati Pfm e che  suonarono in studio con tutti e due; con Fabrizio è memorabile la registrazione della Buona novella prima del tour in comune e con Battisti tutte le canzoni da hit parade, da Balla Linda a Anna con quella sequenza micidiale di Franz Di Cioccio che, alla fine del pezzo, imprime sulla batteria settantadue colpi in sequenza. Storie diverse ma anche molti punti in comune: entrambi riservati, tutti e due decisi ad andare contro i luoghi comuni e soprattutto a non farsi mettere i piedi in testa dalle case discografiche. Fatto sta che in quegli anni i due si sfiorano ma i progetti musicali e di vita sono troppo diversi. De André si trasferisce in Sardegna, fa l’agricoltore, scrive solo quando sente di avere qualcosa da dire. A Tempio la casa è aperta a tutti mentre Battisti si chiude a riccio prima di ritirarsi dalle scene. E questa è una grande differenza tra i due. A metà degli anni Settanta telefonai a Fabrizio dicendogli che stavo attraversando una crisi che lui aveva già passato, alludendo alla sua recente separazione. Mi rispose testualmente: “Ho attraversato tante di quelle crisi che sicuramente la tua coinciderà con una delle mie, vieni a Tempio e ne parliamo”. Il cantautore che aveva scritto già autentici capolavori e i primi quattro concept album era pronto a mettersi sullo stesso piano di un ragazzo poco più che ventenne. Lucio, invece, si negava e a coloro che lo riconoscevano per strada chiedendogli se fosse Battisti, rispondeva: “Magari”! Fabrizio per la sua curiosità musicale e la necessità di confrontarsi aveva molti collaboratori, spesso diversi per attingere nuova linfa vitale; Battisti si affidava ai testi di Mogol e dopo a quelli di Panella. Ma c’è un momento in cui la collaborazione tra i due potrebbe ancora realizzarsi: dopo il divorzio da Giulio Rapetti, il gran Mogol, Lucio Battisti pensa che potrebbe rivoluzionare la sua musica vestendola coi testi di un cantautore doc. Ovviamente mira in alto e potrebbe essere il momento giusto ma è solo un’idea che rimarrà tale. Battisti sceglierà di continuare a far musica sui testi surreali di Panella: cinque album per sperimentare nuovi flussi sonori. Per i segni del destino che nel mondo della musica sembrano più evidenti, Lucio e Fabrizio moriranno a distanza di quattro mesi l’uno dall’altro. “Ormai se lo staranno facendo loro il disco insieme”, dice Dori Ghezzi, “chissà se un giorno riusciremo a sentirlo”.

Pubblicato su Extra Music Magazine, 29 agosto 2019

Cristiano e Pfm, la storia sul palco dell'Arena di Verona

di Alfredo Franchini

Confesso che quarant’anni fa io c’ero a celebrare le nozze tra la poesia di Fabrizio De André e il rock della Pfm, un matrimonio che in quell’era sembrava impossibile e che invece sarebbe risultato tutt’altro che sacrilego. Così, quando il 29 luglio Cristiano De André e la Pfm son saliti insieme sul palco dell’Arena di Verona, ho avuto la percezione – come ha detto Cristiano – che un cerchio si fosse chiuso; due ere musicali e sociali diverse con un filo rosso che le unisce. È la prova reale di quanto Eduardo De Filippo faceva dire a un suo personaggio diventato padre che nella commedia Mia famiglia: “Io non muoio più, non posso morire più, un figlio è parte di te stesso”. Fabrizio vive nella musica di Cristiano che suona tutti gli strumenti, apre e chiude il concerto di Verona con in mezzo un set della Pfm.  Il concerto è diviso in tre parti: la prima è di Cristiano che con la sua band eccellente, (Osvaldo Di Dio, chitarre; Riccardo Di Paola, tastiere e programmazioni; Davide Pezzin, basso; Davide Devito, batteria; Giancarlo Pierozzi, ingegnere del suono), esegue l’opera rock Storia di un impiegato, epicentro del tour che sta portando in giro dall’inizio dell’anno; il lavoro più complesso di De André arriva finalmente al pubblico trasversale dell’Arena. Alle spalle dei musicisti, su uno schermo gigante, scorrono le immagini degli anni di piombo in Italia che la regista Roberta Lena ha voluto incastonare nelle canzoni per avvalorare la tesi che “non ci sono poteri buoni”. Tempi di terrorismo nero e rosso e di stragi che hanno solo favorito il potere costituito. Il primo set si chiude con due canzoni tratte dal disco l’Indiano: Quello che non ho e Fiume Sand Creek che esaltano il suono della band e di Cristiano che suona chitarre, piano e violino. Breve interruzione per cambiare gli strumenti sul mega palco dell’Arena e arriva la Pfm, capitanata dal guascone Franz Di Cioccio che nel ‘79 suonava la batteria con Fabrizio e ora, armato di bacchette e tamburello, canta. Il gruppo che al momento del tour con Fabrizio era reduce dai trionfi in America, è rinforzato con il ritorno in squadra di Flavio Premoli alle tastiere e di Michele Ascolese, chitarra; ci sono il bassista Patrick Djivas, Lucio Fabbri, violino, Roberto Gualdi, batteria, Alessandro Scaglione, tastiere, Alberto Bravin, chitarra acustica e tastiere, Marco Sfogli chitarra elettrica. La Pfm attinge nel repertorio deandreiano dagli inizi sino a Rimini, quindi al 1978; si ferma lì ma ce n’è abbastanza. Sono canzoni spesso legate alla morte, da Marinella gettata nel fiume da uno dei suoi clienti, al Giudice vittima delle malignità della gente. La Premiata esegue poi due pezzi autobiografici di Fabrizio, Giugno ‘73 che esalta il basso di Djivas ed Amico fragile che nessun chitarrista volle suonare al tributo del Carlo Felice nel 2000 non per le difficoltà tecniche ma perché dentro quelle note si nasconde la magia e il carisma di De André. Poi Di Cioccio e soci eseguono una suite dalla Buona novella, il disco tratto dai Vangeli apocrifi. Una scelta che ha una motivazione: all’alba degli anni Settanta, Fabrizio incise quel disco in studio con dei “turnisti”, gli stessi musicisti che di lì a poco avrebbero formato la Pfm. Fatto curioso: la band della Premiata non si sarebbe più incontrata con De André per una decina d’anni sino al 1978 quando il gruppo andò a suonare a Nuoro. Fabrizio ascoltò quel concerto e il giorno dopo invitò tutti a pranzo all’Agnata. E lì, tra un piatto di funghi e un fiume di vermentino, nacque l’idea del tour.  Quando la notizia del connubio De André-Pfm divenne ufficiale, i critici musicali storsero il naso e lo stesso accadde per molte persone affezionate alla prima produzione di De André il quale sino ad allora cantava l’amore, la morte, le puttane e i ladri in un mix tra Brassens, folk e musica classica. Ma De André era un uomo curioso anche musicalmente tanto che negli anni Ottanta, con molto coraggio, avrebbe concepito quel capolavoro rivoluzionario che è Creuza de ma. Fabrizio decise di lanciare la sfida: molti cantautori anglosassoni avevano avuto una svolta rock e persino Bob Dylan era stato contestato per la scelta di elettrificare le sue canzoni; lui in Italia era il primo. Con la Pfm, Fabrizio diventò più cantante: nella seconda strofa di Amico fragile, pezzo autobiografico pubblicato nel ‘75 in Volume VIII, sale di un’ottava, inimmaginabile sino ad allora. E soprattutto quegli arrangiamenti diedero un vestito consono ai tempi ad alcune vecchie perle del canzoniere. Le perplessità iniziali sparirono e fu un trionfo.

Torniamo all’Arena di Verona. È già passata la mezzanotte quando s’inizia il terzo tempo del concerto con Cristiano De André e Pfm impegnati a pescare a piene mani dal doppio album registrato dal vivo nel 1979. Ci sono cinque pezzi tratti da Rimini: Avventura a Durango, Rimini, Andrea, Volta la carta e Zirichiltaggia che fa esaltare il violino di Cristiano accanto a Lucio Fabbri. In mezzo Via del Campo – è inutile dire che tutto è partito da quella strada dell’angiporto genovese – e La guerra di Piero arrangiata in modo tradizionale e cantata in duetto da Cristiano e Di Cioccio. Si chiude con il Pescatore, tra tutte l’arrangiamento più rock; son passate tre ore ma nessuno è stanco. Cristiano aveva chiesto al pubblico di scambiarsi “un cinque” di pace e gli spettatori avevano risposto all’invito; ora è Di Cioccio che chiede “un muro” di mani che infatti si sollevano nell’Arena. È festa, come nel brano della Pfm che scalò le classifiche americane. Resta da fare una piccola riflessione se mai dovesse esserci un’altra data con la Premiata e Cristiano insieme: la Pfm è stato uno dei gruppi più importanti della musica prog e ha puntato tutto sulla forza della sua musica e per questo non ha voluto mai avere in squadra un cantante. Ha innovato la canzone italiana e  penso a Impressioni di settembre che al posto del classico ritornello fa risuonare un moog. Meriti indiscutibili, acquisiti sui palchi ma se dovesse esserci un altro concerto, immaginiamo la Pfm con Cristiano che canta. Sarebbe un’altra storia da raccontare.

 

Pubblicato su Extra Music Magazine, 2 agosto 2019

Anna Mancini, la chitarra a modo mio

“Il mio sogno era quello di suonare la batteria ma i miei genitori mi indirizzarono al pianoforte. Mi annoiavo col solfeggio e sognavo una musica roccheggiante così ho scelto di suonare la chitarra a modo mio”

di Alfredo Franchini

 

Suona la chitarra tamburellando sulle corde con la prospettiva di un batterista che scruta l’empireo del rock. Anna Mancini, musicista napoletana, ha assorbito i riferimenti dall’America senza dimenticare le origini che affondano nella tarantella o nella tammurriata. Attenzione: siamo lontanissimi dallo stereotipo del chitarrista acustico perché Anna Mancini, (di nome e di fatto perché è mancina), suona adoperando tapping, slapping, tecniche percussive con accordature alternative. Negli ultimi mesi, Cristiano De André ha voluto che Anna aprisse i concerti del tour “Storia di un impiegato” che ha registrato ventuno sold out su ventuno date nei teatri italiani. Il pubblico applaude gli strappi e le percussioni sulle corde, sorpreso da un suono che può essere una carezza o uno schiaffo.

_ Anna, come sei arrivata a questo tipo di suono?

“Mi sono avvicinata alla chitarra perché ascoltavo i Led Zeppelin e mi ero innamorata di Jimmy Page che sperimentava le accordature aperte e io avrei voluto essere come lui.

_Che cosa ti colpì di Page?

“Page ha innovato il modo di fare rock e ha scritto linee melodiche, riff, assoli che hanno una personalità propria. Tornando alla mia storia, da bambina, il mio sogno era quello di suonare la batteria ma i miei genitori mi indirizzarono al pianoforte”.

_ Facci capire, siamo agli antipodi nella famiglia degli strumenti, che è successo?

“Facile, volevo una batteria ma i miei avevano timore che poi avrei dato fastidio al condominio. Mia madre sostenne che sarebbe stato meglio comprare un pianoforte; male andando sarebbe rimasto un bel mobile in casa. La batteria non può fare arredamento” …

_ Quindi hai studiato pianoforte?

“Ma no, io volevo suonare sùbito e invece la maestra non mi faceva toccare la tastiera, mi insegnava il solfeggio. Mi annoiavo, sognavo una musica roccheggiante così ho scelto la chitarra a modo mio”.

_ Tutto questo avveniva a Napoli che in musica esprime una stratificazione sociale e a ognuno corrisponde una cultura: la tradizione è la musica popolaresca ma è ben radicata la canzone d’autore e persino i neomelodici. Nella tua musica mi pare che ci sia un filo rosso che attraversa tutto questo fiume sonoro.

“Sì, hai ragione, ti dico che non mi dispiacevano nemmeno i neomelodici tanto che faccio anche una cover di Franco Ricciardi che è il papà di tutti i neomelodici ed ero un’estimatrice di Nino D’Angelo. Per le mie composizioni, credo che tu ti riferisca al fatto che in alcuni pezzi prevale una radice melodica”.

_ A questo punto dobbiamo capire meglio le tue radici, che musica ascoltavi da bambina?

“Son partita da Michael Jackson e proprio per le sue canzoni mi sono messa in testa la batteria e la chitarra. Poi, ho detto dell’innamoramento per Jimmy Page e il passo successivo è stato Preston Reed al quale basta una chitarra acustica per essere incredibilmente metal”!

_ Preston Reed è forse il punto d’arrivo?

“Sì, lui è stato davvero un innovatore. Adopera varie tecniche, tapping, legature e imprime quei colpi percussivi” …

_ Ora apri i concerti di Cristiano De André. Com’è avvenuto l’incontro?

“Cristiano aveva ascoltato alcuni miei pezzi e mi ha contattato. Mi ha sentita suonare dal vivo e mi ha chiesto di aprire i suoi concerti con un set strumentale; in seguito sono entrata a far parte del suo spettacolo. Facciamo due canzoni insieme: Disamistade e Megu Megun”.

_ E ti sei trovata in teatri con migliaia di persone davanti. Che cosa ha significato?

“E’ una grande emozione, dovunque c’è sempre il pienone e poi c’è un bel pubblico perché è sempre attento. Molto interessante e ti confesso una cosa: di musica italiana ne avevo ascoltata molto poca, l’unico che ho sempre apprezzato era proprio De André. Quindi sono doppiamente felice. I suoi sono romanzi in musica, ti aprono la mente”.

_ E dopo la musica la tua passione è la letteratura.

“Sì, ma quella horror o thriller. Sono sulla buona strada per finire di leggere tutti i libri di Steven King, cono arrivata quasi a cinquanta. Ogni tanto lo accantono per leggere i russi o le biografie di personaggi storici inglesi ma alla fine torno sempre dal mio King”.

 

Pubblicato su Extra Music Magazine, 27 luglio 2019