EXTRA MUSIC MAGAZINE

Animantiga, viaggio nel mare nostrum

di Alfredo Franchini

Non c’è un solo colore del mare, ce ne sono tanti. L’acqua, grigia sotto le nuvole, è nera di notte; all’alba diventa dorata e al tramonto può essere rossastra. Sono le sensazioni che ci trasmette Animantiga, il disco postumo di Roberta Alloisio, una delle grandi voci del Mediterraneo, cantante, attrice e interprete genovese, che se ne è andata via trentasei ore dopo aver registrato questo incredibile lavoro. Omero diceva che il mare  di notte ha il colore denso delle isole e qui il colore è quello della Corsica: Animantiga è stato pensato e condiviso da Roberta con il cantautore corso Stéphane Casalta per raccontarci la sorellanza tra Genova e la Corsica. 


Le due lingue, perché di questo si tratta non di dialetti, si mischiano, si contaminano, proprio come i suoni arrangiati da Giovanni Ceccarelli che alle dodici canzoni dell’album ha aggiunto una composizione di piano solo, dedicata a Roberta. Ma, in realtà, siamo di fronte a un disco corale cui hanno preso parte tante donne, tra cui Laura Parodi, Esmeralda Sciascia, Elsa Guerci, Patrizia Gattaceca, Cristina Nico, e tanti uomini, Paolo Gerbella, Mario Arcari, Armando Corsi, Felice Del Gaudio, Loris Lombardo, Luca Falomi, Marco Leveratto, Stefano Cabrera; artisti tutti presenti nella title track che dà il titolo all’album, scritta da Paolo Gerbella

È musica del popolo e le melodie sono avvolgenti soprattutto quando Giovanni Ceccarelli e Armando Corsi ricamano sulle rispettive tastiere del piano e della chitarra e Mario Arcari, principe dei fiati, sottolinea le frasi con l’oboe; musica etnica con ricorrenti suggestioni world e jazz. È un viaggio nel mare nostrum tra Genova, il Maghreb, la Turchia, che parte da una lingua di terra che si allunga nel mare e da cui riusciamo a vedere la Corsica, “Kalliste, la più bella”, come la chiamavano i Greci.

L’isola lascia al fato il suo destino pirata, così vicina al mare ligure eppure separata da destini e lingue differenti. Genova come un arco teso all’Oriente con i suoi grandi palazzi e le foglie d’ulivo che caratterizzano tutto il Mediterraneo: “Siamo sorelle, siamo fratelle”, è il canto corale di questo viaggio antico eppure così attuale.

Bordesando come deve un buon marinaio, una canzone ci porta in Turchia nel Mar di Marmara, uno specchio d’acqua tra due continenti, dove tutto è “negru”. O meglio è nero per chi dalla Turchia osserva un orizzonte cupo. In questo brano alle voci di Roberta Alloisio ed Esmeralda Sciascia si impastano i contrappunti di Armando Corsi e il tocco di Ceccarelli alla clavietta. Il Mediterraneo è un mosaico di storie, di popoli e razze che si sono mescolate, fusi e contrapposti per secoli; una storia che sentiamo in “Mediterraniu”, cantata da Patrizia Gattaceca, e nella dolcissima ninna nanna intitolata Dòrmi colombo, un brano popolare genovese.

Ma il mare è fatica ed è pericolo ed è facile che qualche marinaio possa intravedere le Sirene: “Il mare mi affascina ancora, lo vedo disteso, offeso, tradito da canti di mille sirene, una voce suadente mi attrae serrando le vene con cento catene”. Qui il colore che Roberta assegna alla canzone è il grigio ardesia mentre il profumo che ci sembra di respirare potrebbe essere quello del basilico che ogni genovese custodisce sul proprio balcone mentre un corale, reinterpretando un canto popolare, ci conduce alla “Lanterna de Zena”. Il viaggio canoro prosegue risalendo verso la Corsica, sapendo che il Mediterraneo è una storia di conflitti perenni. 

 

Nel disco trova spazio una corale polifonica a cappella, “Amandulu fiuritu”, che ci ricorda come i canti polifonici abbiamo un ruolo importante nella cultura corsa; questa piccola Odissea si conclude con il ritorno a Genova e a quei fantastici incontri di vocali che solo il genovese regala. Il disco è stato prodotto da Orange Home Records di Raffaele Abbate ma il progetto è nato con un crowdfunding sulla piattaforma Musicraiser.

Il percorso artistico di Roberta Alloisio si chiude qui con un disco che è un po’ la summa di una vita dedicata al teatro e alla canzone che la portò a vincere nel 2011 la Targa Tenco come miglior interprete a collaborare con Luis Bacalov per il progetto “Xena Tango”. L’opera di post-produzione, successiva alla prematura scomparsa di Roberta, ha richiesto una lunga elaborazione del lutto da parte di tutti coloro che avevano creduto nel progetto. Da segnalare la foto della copertina: una mongolfiera che sale verso il cielo, opera di Lele Luzzati amico da sempre di Roberta. La mongolfiera sale con due personaggi a bordo, sorridenti, in volo per mondi lontani 

Pubblicato su Extra Music Magazine, 17 febbraio 2020

Cristiano De André vince il Premio Ciampi

di Alfredo Franchini

Le case di Piero Ciampi e di Amedeo Modigliani nella via Roma a Livorno sono una di fronte all’altra. Nel giorno del Premio Ciampi, due musicisti si affacciano alle finestre degli edifici attraversati da una strada; saranno in tutto una decina di metri in linea d’aria e improvvisano un dialogo fra tromba e sassofono. È il modo più adatto per iniziare la lunga finale del premio Ciampi, assegnato quest’anno a Cristiano De André che la giuria ha decretato essere “la voce di quelli che non si sanno rassegnare a una notte senza stelle da contare”. Ciampi non fu un cantautore comune così come Modigliani anticipò di gran lunga il costume degli artisti contemporanei. Per entrambi essere moderni equivaleva a una questione scomoda perché immaginavano un futuro diverso da artisti maledetti per l’incessante polemica antiborghese e lo stile di vita bohémien.

Il titolo della venticinquesima edizione del premio rappresenta il valore universale del cantautore livornese: “Ciampi ieri, oggi e domani” è il motto che gli impeccabili organizzatori hanno scelto per il quarantennale della morte del poeta in musica. Il 2020 segna una svolta importante per il premio della canzone d’autore che ha avuto un’anteprima a Genova in Via del Campo, nel museo dei cantautori diretto da Laura Monferdini: Livorno e Genova gemellate nel segno della canzone d’autore. Per questo con la Monferdini c’è un altro illustre genovese: Gianfranco Reverberi, compositore, pianista e produttore; il perno su cui ha ruotato la musica italiana degli anni Sessanta e Settanta, il discografico che ha lanciato Tenco, Paoli, Gaber e Jannacci, uno dei primi a proporre il rock’n roll in Italia. Reverberi fu grande amico di Piero Ciampi con cui condivisero il servizio militare nelle Marche e poi fu autore e produttore del cantautore livornese. Reverberi sale sul palco del teatro Goldoni e suona “Fino all’ultimo minuto”, il brano da lui composto e pubblicato nel disco in cui Ciampi, reduce dall’esperienza a Parigi, viene definito “l’italiano”, peraltro senza l’apostrofo. In quello storico album c’erano dodici canzoni e Ciampi avvertiva: “Sono dodici canzoni per una donna che ho amato e che ho perduto, dodici ricordi che sono la Bastiglia del mio cuore”.

La sera scende dolce nel porto di Livorno, proprio come sarebbe piaciuto a Piero che in molte poesie ha descritto la sua città. Versi ideati mentre camminava per la strada, facendo soliloqui nel porto delle illusioni con la speranza di incontrare “qualcuna come lei”. Sì, perché Piero ha perso tutte le sue donne e con loro ha perso la casa, la famiglia, i figli ma gli è sempre rimasta la poesia di cui andava fiero. “Per sapere cos’è la solitudine bisogna essere stati in due, altrimenti qualcuno ti deve raccontare che cosa è la solitudine”. Dall’impotenza dei sentimenti nacque quel capolavoro che è Tu no, canzone della rinuncia scritta a toni ancora più cupi di Non andare via di Jacques Brel.  Cristiano De André la canta nel Teatro Goldoni accompagnato alla chitarra da Osvaldo Di Dio e attraverso la sua interpretazione si riesce quasi a toccare con mano il lirismo del dolore. È la parabola del male che ti viene addosso, ti travolge e a cui non puoi porre rimedio. Cristiano non si nasconde: “Ho pensato alla fine del mia famiglia, dei vecchi saggi, mio nonno, mio padre, mio zio, mia madre, tutti scomparsi in sette anni”. E l’emozione è ampliata dal ricordo di ventitré anni fa quando Cristiano accompagnò il padre a prendere lo stesso premio. Tu no, quel grido di dolore che Ciampi urlò dopo l’abbandono della sua Gabriella diventa il grido di Cristiano e tutto torna nelle motivazioni della giuria: “Mai come nel caso di Cristiano De André la vicenda artistica si è dipanata a così breve distanza da quella umana. La possiamo considerare un lungo dialogo con se stesso e con il padre Fabrizio. Nel corso di una carriera ormai quasi quarantennale”, dice il presidente Antonio Vivaldi, “Cristiano, oltre a dare prova di sé come eccellente strumentista ha inciso canzoni in cui non ha avuto paura di dimostrarsi romantico, oppure fragile, oppure dubbioso. Da oggi lo possiamo considerare la voce di quelli che non si sanno rassegnare a una notte senza stelle da contare”.

Ma le stelle che Ciampi cantò in modo davvero diversa dagli altri cantautori ci sono eccome nella notte gelida di Livorno: “Figli vi porterei a cenare sulle stelle ma non ci siete”, scrisse Ciampi in Sporca estate, uno dei tanti brani in cui imprecava o usava l’antica tecnica del vituperium senza mezzi termini, sino ad arrivare al vaffanculo. “Finirà come sempre, una porta chiusa a chiave, dentro a un letto disfatto, dentro una stanza buia. La luce delle stelle spenta sotto i corpi che si muovono a distanza senza amore sono alibi di sesso. Perché dici di amarmi? Talvolta temo davvero di non amare più nessuno e di non riuscire ad amare e invece l’incontro è sacro per questo. Incontro qualcuno che mi fa pensare che sono ancora capace di amare”. Ciampi non fece nulla per piacere al pubblico, dice il maestro Reverberi, ma i giovani lo stanno riscoprendo. La canzone d’autore è viva e nello spettacolo lo ribadisce il giornalista Andrea Scanzi che tratteggia la figura di Ciampi e regala alcuni aneddoti gustosi assieme all’Orchestra multietnica di Arezzo e a Paolo Benvegnù. Cantano i La Crus e Omar Pedrini, suonano Andrea Pellegrini col Trio di Livorno. Per Cristiano De André è un punto d’arrivo e di ripartenza: “E’ il momento che tiri fuori me stesso”, afferma, “e che vi racconti come la penso”. Ma prima del suo nuovo disco, intanto, è previsto per il prossimo autunno l’uscita di un Dvd basato sull’ultimo tour Storia di un impiegato ma che conterrà un “film nel film” per la regia di Roberta Lena. La venticinquesima edizione del Ciampi si chiude così tra musicisti che per strada improvvisano il ritornello: “Quanto è bello il vino, rosso, rosso, rosso” e vecchi amici che si ritrovano al ristorante l’antica Venezia dove mangiava Dedo Modigliani: il tempo se ne va, recita un inedito di Ciampi: “Andando via talvolta dolcemente, mani perdute tutto alle spalle… la sera scende in fondo al cuore, solo mani perdute, solo buio profondo e il tempo se ne va. L’amore in cima, l’anima in fondo”.

Pubblicato su Extra Music Magazine, 25 gennaio 2020

Osvaldo Di Dio, chitarrista e cantautore

di Alfredo Franchini

Uno dei guitar heroes diventa cantautore. È la parabola di Osvaldo Di Dio, il chitarrista che ha suonato con Franco Battiato ed Eros Ramazzotti e che è stato direttore di palco nell’ultimo tour di Cristiano De André, concluso poco prima del Natale scorso. Giunto a 39 anni, Osvaldo si sdoppia: continuerà a suonare e a insegnare i segreti della chitarra e allo stesso tempo canterà “in proprio”.  Il primo singolo si chiama “Mi gira la testa”, il secondo è in uscita il 10 gennaio. La produzione artistica è dello stesso Osvaldo Di Dio con Paolo Iafelice per Adesiva Discografica, la distribuzione è curata da The Orchard. La svolta è avvenuta nell’anno appena passato: “Il 2019”, spiega Osvaldo Di Dio, “è stato un anno di grande maturazione artistica e personale. Lavorare nel mondo della musica costringe chi ne fa parte a capire, giorno dopo giorno, meccanismi e regole non scritte ma la musica è materia viva che cambia costantemente, soggetta com’è allo spazio e al tempo”. Come dire che Osvaldo Di Dio vive attraverso il suono delle sue chitarre e tutto ciò che sente si trasforma in musica.

“Intorno ai sedici anni ho capito che la chitarra sarebbe stato lo strumento con cui avrei potuto esprimermi”, racconta, “e da allora ho frequentato tutti i generi musicali: jazz, blues, rock, metal”. Con quel bagaglio musicale sulle spalle, Di Dio, frequentò il Conservatorio Verdi di Milano e si diplomò con una tesi su Jimi Hendrix. Ma le origini napoletane non potevano non metterlo sulla strada di Pino Daniele: “Il blues”, dice, “è stato quello che mi ha segnato e che mi ha permesso di trovare la mia voce”. Del resto, chi era Pino Daniele? Certo è l’artista che ha rivoluzionato la musica italiana con sonorità nuove ma è anche il chitarrista che, a un certo punto della sua vita, dopo aver lasciato i compagni di strada come James Senese, si è messo a cantare. Di questo si sarà ricordato Osvaldo Di Dio la sera del 7 giugno 2018 quando ha suonato nello stadio San Paolo, di fronte a sessantamila persone, nel mega concerto tributo all’autore di Napule è. Ma come è possibile che un chitarrista d’eccezione, così capace di costruire il suo inconfondibile suono, si trasformi in cantautore? La spiegazione è semplice: “Voglio fare spazio, per quel che concerna l’attività artistica slegata dal turnismo e dalla didattica, al mio alter ego, il mio fratello gemello: didio, in omaggio al nome che mi aveva dato Franco Battiato”.

La scelta di Osvaldo ci induce a una riflessione sul ruolo dei cantautori al giorno d’oggi. È vero, infatti, che i ragazzi apprezzano, capiscono e vogliono scoprire i grandi autori  che hanno fatto la storia della musica italiana a partire dagli anni Sessanta e Settanta; quando i giovani vengono a conoscenza dei cantautori storici ne riconoscono il valore, ne apprezzano l’opera ma, alla fine, non può essere la loro musica. Ogni generazione omaggia i poeti ma rifiuta quello che ritiene vecchio. Un musicista come Osvaldo Di Dio potrebbe essere un ideale trait d’union tra il suono nuovo e i testi di valore. Ogni artista è figlio del suo tempo e ogni periodo storico è caratterizzato da alcuni strumenti: se negli anni Settanta la chitarra era al centro di ogni composizione, ora le cose stanno cambiando. “Avverto un calo di interesse da parte delle nuove generazioni per la chitarra. Forse perché per imparare a suonare uno strumento occorrono sacrificio e impegno e qualcuno crede che con l’elettronica sia tutto più facile” … Ovviamente non è così ma l’educazione musicale non è contemplata nella scuola italiana dove non si studiano le basi e viene ignorata persino la storia della musica. Solo i bravi professori non insegnano la letteratura senza unirla alla storia e alle arti del tempo di cui si parla quando si studia uno scrittore o un poeta.

Il primo singolo di Di Dio, Mi gira la testa – il video è anche su Youtube – parla della frenesia che ci coglie ogni giorno. Bombardati da una gragnuola di notizie, non riusciamo a fermarci. Nella canzone, il protagonista prova a fermarsi per confrontarsi con le persone. E ovviamente il suono la fa da padrone: “Per sottolineare lo stato frenetico”, spiega Osvaldo”, “ho pensato di arricchire il riff che avevo in mente con l’elettronica, seguendo il metodo che imparai da Franco Battiato quando lavoravo con lui”. Osvaldo si è formato ascoltando la musica degli anni Novanta, dai Nirvana ai Pearl Jam, dai Queen ai Pink Floyd. E presto fu passione per i Guitar Legends o forse sarebbe meglio dire Guitar Heroes: Jimi Hendrix, Eric Clapton, Stevie Ray, David Gilmour, John Mayer. Miti o addirittura divinità per chi ama la chitarra. Osvaldo Di Dio ha collaborato con molti artisti e negli ultimi dieci anni ha affiancato Cristiano De André nei diversi tour dell’artista cui sarà assegnato il premio Ciampi per la canzone d’autore il prossimo 19 gennaio. Il tour Storia di un impiegato che si è concluso prima del Natale scorso, ha fatto registrare sold out in tutte le città in cui è stato proposto da De André. Nel frattempo, Osvaldo Di Dio ha pubblicato a suo nome gli album Better Days (Odd Music, 2015), Odd Live feat Lele Melotti (Odd Music, 2017), Tex Mex sex (Odd Music, 2018) e Guitar Stories (Odd Music, 2019). Tutto questo ci pone di fronte alla domanda delle cento pistole: dove va la canzone italiana? Osvaldo Di Dio ripete le parole che gli sussurrava Battiato durante i tour: “Caro Di Dio, ricorda che ci sarà sempre posto per chi sa scrivere belle canzoni”. Io ricordo quanto mi disse Fabrizio De André: “Nella storia dell’arte ci sono sempre stati dei cicli. All’inizio le brocche per l’acqua erano di terracotta grezza, poi vennero ornate di disegni ma a un certo punto si tornò alle origini. Così, dopo tanto rumore, un giorno ci sarà un cantautore che prenderà la chitarra e dirà delle cose per cui tutti lo staranno ad ascoltare”.

Pubblicato su Extra Music Magazine, 8 gennaio 2020

Bocca di rosa si ferma in Calabria

di Alfredo Franchini

Il lungo viaggio di madri, amanti, prostitute e donne pensate come amore incomincia venerdì 6 dicembre dal Piccolo teatro Unical di Rende. E’ uno spettacolo voluto  dal gruppo calabrese Coram Populo, incentrato sulle canzoni di Fabrizio De André che hanno per protagonista le figure femminili. Una produzione imponente, una rappresentazione scenica  multimediale dove si alternano musica e recitazione alla proiezione di filmati di stretta attualità, tutto legato al punto di vista delle donne. Si chiama “Bocca di Rosa e le altre”, da un’idea di Sergio Crocco, scritto e diretto da Simona Micieli, artista avvezza sin qui a tenere concerti di musica popolare ma che ora si distanzia, almeno in apparenza, dal folk e dal dialetto calabrese per percorrere le praterie della poetica di De André. Si sa che se scorporassimo le figure femminili dal contesto dei romanzi musicali di Fabrizio ci troveremmo di fronte mille donne; Marinella, Ninetta, Ella, Kate, Maggie, Lizzie, Jenny, Teresa, Maddalena, Biancamaria, colei che aspetta il ritorno del marito soldato, chi è morta di aborto e chi d’amore, la ragazza che tenta di salvare Geordie dall’impiccagione, le passanti, la moglie di Anselmo, le spose bambine, la giovane Nina, l’anziana che si meraviglia delle lodi ricevute nel tempo passato per la sua bellezza, chi ha visto il suo uomo, malato di cuore, morire sulle proprie labbra. Tutte diverse, tutte vittime di tre sacrifici: la verginità, la maternità e la prostituzione. Un mondo che sta all’opposto di quello degli uomini, i quali nelle canzoni di Fabrizio se non sono gigli sono vittime di questo mondo ma spesso sono pure sopraffattori, esponenti del potere peggiore, addirittura ripugnanti come il commerciante che compra e vende organi umani, fegati e polmoni, capace di preoccuparsi solo della propria reputazione anche di fronte alla morte di un figlio. No, le donne di cui parla Fabrizio sono migliori degli uomini ed è per questo che le cantanti e le attrici che prendono parte allo spettacolo voluto da Simona Micieli chiuderanno la scena calzando sul viso una maschera raffigurante il volto di De André. Un modo per dire grazie a chi fu capace di lanciare il cervello ai bordi dell’infinito. Il lavoro dei Coram Populo è stato complesso perché ha riguardato gli arrangiamenti delle canzoni con l’urgenza di rispettare lo spirito che le avevano ispirate ma anche  l’attenzione che occorre per una regia teatrale, curata da Raffaella Reda, la ricerca dei costumi, affidata a Natascia De Rose, la regia video, affidata a Alessandro Morrone. Se le caratteristiche delle donne deandreiane sono tre, le figure del canzoniere  sono troppe per stare nello spazio di una serata per cui Simona Micieli ha compiuto una selezione delle canzoni, estrapolandole da otto album sui tredici registrati in studio da Fabrizio De André: La buona novella, Creuza de ma, Volume 1 e 3, Anime salve, Canzoni, Rimini e Tutti morimmo a stento. La scena si apre con un monologo di Raffaella Reda sull’universo femminile mentre altre donne prendono posto tra il pubblico: non salgono sul palco, lo faranno allo scadere del tempo per indossare la maschera di colui che ha marciato in direzione ostinata e contraria. Si accomodano in platea la ballerina di seconda fila, cantata in Amico fragile, la tenera vecchia contessa, citata nel Testamento, la pulzella di Carlo Martello, la signorina in tailleur grigio fumo, Franziska che finalmente posa  per un pittore che la può guardare mentre una vecchia terrà aperta la gabbia da cui è scappato il gorilla giustiziere. Lo spettacolo vivrà la sua drammaticità all’inizio quando tre donne vestite a lutto irromperanno in scena: siamo sotto la croce e due donne piangono la morte del proprio figlio accanto alla Madonna. Sono disperate e rimproverano la madre di Gesù che soffre pur sapendo che il figlio farà ritorno dopo tre giorni; e sono proprio le parole di Maria a rappresentare il sentimento materno: “Piango di lui, ciò che mi è tolto, le braccia magre, la fronte, il volto” … Intanto sul fondo del proscenio un video proietta le immagini della strage dei migranti, di quell’enorme cimitero che è diventato il Mediterraneo. Restando nel mare nostrum, i viaggiatori di Coram Populo incontrano Jamina, sicuramente il personaggio più erotico descritto da Fabrizio, la ragazza bruna che ogni marinaio  sogna d’incontrare nel primo porto d’approdo dopo le fatiche della navigazione. Dalla Calabria si leva in alto un canto in genovese, una lingua che conta oltre duemila vocaboli di provenienza araba e turca. I dialetti – sosteneva Fabrizio – sono linfa vitale per l’italiano  e un idioma assurge a dignità di lingua o decade a livello di dialetto solo per motivi politici: il portoghese era un idioma iberico sino a quando i portoghesi non colonizzarono il Brasile. Genova vuol dire Via del campo che rappresenta tutta la poetica di Fabrizio. Non è un caso che questo viaggio tra le donne abbia ricevuto il patrocinio di Via del Campo 29 Rosso, diretto da Laura Monferdini. Dopo la storica canzone di Fabrizio, sarà proiettato il video di un’intervista a Carla Corso, leader del movimento delle prostitute, la quale ebbe modo di conoscere Fabrizio. La Corso conosceva il motto con cui il poeta degli ultimi riconosceva ben poco merito nella virtù e poca colpa nell’errore ma quando si trovò di fronte a lui, dopo un concerto, non seppe che cosa dirgli: “Ci guardammo in silenzio”, raccontò Carla Corso, “io che nella vita avevo mangiato tanti uomini non riuscivo a parlare, soggiogata dal suo carisma”. Dal video alla canzone: Princesa ci riporterà al tema del dolore così presente in De André e subito dopo Marinella dovrà districarsi sul palco tra una serie di scarpette rosse in sincronia con un video sul femminicidio. I musicisti fanno squadra per impastare al meglio suono e voci: Giovanni Brunetti (pianoforte), Pino Cariati (voce e chitarra), Giovanni Reale (basso), Walter Giorno (batteria), Andrea Marchese (clarinetto, mandolino e bouzouki), Camillo Maffia (fisarmonica e bandoneon). Musica e scene aprono la strada a Giovanna d’Arco, a Sally e alla tiranna vanitosa dell’Amore cieco; Suzanne sale le scalette del palco tra i sacchi di spazzatura per poi scrivere sulla terra: “Siate marinai finché il mare vi libererà”. C’è spazio anche per un omaggio alle donne curde e la canzone scelta non poteva che essere Sidun, la cronaca dell’operazione scellerata compiuta da Sharon con la distruzione della città di Sidone. De André racconta di un arabo che ha in braccio il figlio stritolato dai cingoli di un carro armato, morte di un bambino e simbolo della fine di una civiltà. Uno spazio se lo ritaglia anche la moglie di Anselmo: in modo didascalico una ragazza andrà in scena a ripararsi dalla pioggia torrenziale con un ombrellino mentre un po’ più lontano c’è un uomo poco coinvolto dall’alluvione di Genova perché “l’amore ha l’amore per solo argomento”. Lo spettacolo corre vero la fine con un omaggio alle donne curde attraverso la Guerra di Piero, inno del pacifismo per eccellenza. Poi le luci sono tutte per Bocca di rosa, l’unica in grado di unire l’amore sacro e l’amor profano. Canta Simona Micieli, circondata sul palco dal sindaco del paesino, le comari, il prete. Sta per calare davvero il sipario quando arriva l’atto accusa supremo per tutti gli uomini, banchieri, pizzicagnoli, notai: è il Recitativo di Tutti morimmo a stento, pronunciato da Simona Micieli prima che sul palco si riuniscano tutte le donne del mondo di De André. E’ l’atto di accusa finale per gli uomini e sullo schermo compaiono le facce dei potenti della terra, da Trump a Putin: che nessuno si senta assolto.

Pubblicato su Extra Music Magazine, 1 Dicembre 2019

Il teatro-canzone prima e dopo Gaber

di Alfredo Franchini

 

IL teatro abbraccia molte aree diverse e in una di queste c’è anche la canzone. Ma quali differenze ci sono tra il teatro musicale e il teatro canzone e quali elementi ci potrà riservare in futuro questo genere di spettacolo? Il tema è al centro di un saggio breve ma intenso, scritto da Eugenio Ripepi, attore, regista, cantautore, direttore artistico di manifestazioni teatrali di portata nazionale. L’autore segna una linea di demarcazione precisa: nel teatro canzone c’è un prima e un dopo Giorgio Gaber, il quale dalle esibizioni degli anni Sessanta al Santa Tecla di Milano, alle spalle del duomo, arriva sul palcoscenico come cantante-attore, capace di intrattenere il pubblico da solo per un paio d’ore alternando monologhi e canzoni. Ma anche questo non basta, secondo Ripepi perché si possa parlare di teatro-canzone: non è sufficiente alternare parole e canzoni, occorre un progetto unico, originale, inedito e un impegno civile. Certo, se si va indietro nel tempo possiamo dire che c’è poco da inventare: il legame con il teatro greco è dimostrabile facilmente risalendo nel tempo agli spettacoli festivi a Epidauro, all’unità tra poesia e musica, ai cori ditirambici in onore del dio Dioniso, improvvisati e rapsodici. Ma questo è un altro discorso. Ripepi nel suo vademecum indispensabile per chiunque si avvicini al teatro canzone, giustamente indica tra gli antenati il caffè-concerto, la rivista, il cabaret, il Modugno che a Sanremo allarga le braccia e con Volare indica agli italiani l’imminente arrivo del boom economico. E ancora i mitici Nanni Svampa e Dario Fo che fu il vero maestro di Gaber e Jannacci. Ma tutto cambia nel 1970 quando nella televisione ancora in bianco e nero compare il volto di Gaber sdoppiato: “Io mi chiamo G, anche io mi chiamo G” … È solo un abbozzo di teatro canzone, almeno per l’Italia perché in Francia Brel, Montand, Trenet tenevano veri e propri recital. 

“Gaber sta al teatro come De André sta alla musica”, scrive Eugenio Ripepi, “due borghesi antiborghesi”. E si susseguono le opere teatrali di Gaber come Polli d’allevamento, Dialogo tra un impegnato e un no so, Far finta di essere sani, tutti scritti a quattro mani da Gaber e Sandro Luporini con riferimenti precisi sia all’attualità sia alla letteratura. Poi a metà anni Ottanta arriva una cantata anarchica, Io se fossi Dio, un’invettiva degna di un nuovo Savonarola, così forte che la casa discografica, la Carosello Records non volle pubblicare e fu stampata da un’etichetta minore. Tra satira di costume e coscienza critica, Gaber condanna in toto il sistema politico e prende atto della sconfitta di un’intera generazione. Eugenio Ripepi dedica un capitolo alla canzone teatrale che ha il capostipite in Domenico Modugno con il quale i cantautori hanno un debito di riconoscenza. Vengono ricordati Piero Ciampi che recitava sulla musica con l’inconfondibile cadenza livornese come in Te lo faccio vedere chi sono io e la geniale Adius: “In Ciampi a volte è il teatro che vince sulla musica”, scrive Ripepi. Chi concepiva i suoi concept album in modo teatrale era sicuramente Fabrizio De André, basti pensare al Recitativo che chiude Tutti morimmo a stento o ai versetti della Bibbia che fanno parte della Buona Novella. Per non citare l’apertura del disco con la voce di due donne dal forte accento sardo che recitano la poesia Nuvole. Il dopo Gaber vede pochi nomi certi e tra questi c’è Gian Piero Alloisio che tra l’altro scrisse con l’autore del Signor G alcuni brani tra cui la strabiliante La strana famiglia. Tra gli altri esempi di teatro canzone ci sono quelli di Max Manfredi, una penna straordinaria per la poesia in musica, autore della Leggenda del santo cantautore e di altre pièce teatrali. Ma Ripepi cita anche la metafisica teatrale di Vinicio Capossela, la recitazione cantata di Alessandro Mannerino e la canzone civile di Simone Cristicchi che, dopo essere partito dalla canzone teatrale al tempo della vittoria a Sanremo con Ti regalerò una rosa, è approdato al teatro canzone con Magazzino 18, il posto nel porto vecchio di Trieste dove gli esuli istriani lasciarono in deposito i loro oggetti personali nell’esodo del 1947. In definitiva, il genere è più che vivo che mai e può diventare uno sbocco importante per gli artisti, nell’era in cui il Cd è a rischio di sopravvivenza, sopraffatto dalle piattaforme “liquide”. Per i cantautori potrebbe essere la destinazione finale di chi ancora oggi pubblica quelli che una volta si chiamavano concept album. Senza contare che la musica “da guardare” in America si produceva dagli anni Sessanta con il teatro musicale del rock, avanguardie e light show. Jim Morrison dei Doors, conosceva bene la tragedia greca e comparava lo spettacolo della sua band a un dramma poetico. E quando Jimi Hendrix suonava la chitarra coi denti e alla fine bruciava lo strumento non faceva altro che uscire di scena come a teatro. Né più né meno di come fece addirittura Nicolo Paganini quando il concerto lo iniziò avviandosi sul palco entrando però in scena dal fondo del teatro e passando in mezzo al pubblico che lo paragonava al diavolo. È musica da guardare.

 

Pubblicato su Extra Music Magazine, 13 Novembre 2019