EXTRA MUSIC MAGAZINE

Clemente, un matrimonio ai confini del giorno

di Alfredo Franchini

Scene di un matrimonio raccolte in un disco, “I confini del giorno” di Antonio Clemente, siciliano ma naturalizzato ligure, cantautore e pittore che pubblica il suo quarto lavoro in studio per l’etichetta La Stanza Nascosta Records. È un pittore, dicevamo, e forse per questo a ogni canzone attribuisce un colore restituendoci immagini di paesaggi, di natura, di cieli e di mare. Il CD sarà distribuito da giovedì prossimo col supporto fisico e sarà presente anche su tutte le maggiori piattaforme online. I confini del giorno è un album monotematico che racconta una storia d’amore dipanata lungo dieci anni di vita ma qui riepilogata nell’arco di una giornata particolare.  Nelle canzoni non c’è l’amore sacro e nemmeno quello profano o tantomeno carnale ma nel trascorrere delle due notti in cui è stato limitato lo spazio temporale dei brani c’è l’uomo con i suoi dubbi e la sua inquietudine perché - come diceva Fabrizio De André - l’uomo potrà anche andare sulla luna ma, a patto di non essere diventato un cinghiale laureato in matematica, avrà sempre gli stessi problemi. 

Nello stile di Antonio Clemente non c’è dentro la scuola genovese – che peraltro non è mai esistita – ma è ben presente il “codice Zena”, sì quello della canzone d’autore respirata da Via del Campo alla soffitta di Boccadasse dove c’era una volta una gatta. Canzone d’autore doc, dunque, e non è un caso che le quattordici canzoni sia state tutte suonate con strumenti musicali “veri”, autentici, riconoscibili. In un periodo storico in cui persino la chitarra è trascurata dai giovani che compongono musica con un semplice computer, possiamo ascoltare il suono puro della chitarra classica, quello grave del violoncello e finalmente una tromba, da troppo tempo scomparsa negli arrangiamenti, sopravvissuta solo nei pezzi fintamente caraibici. Nei Confini del giorno incontriamo una musica eterogenea che sfiora il valzer, la bossa nova, il folk irlandese e quello andaluso seguendo le linee del cromatismo poetico su cui hanno teorizzato in tanti. Non mancano le virate pop-rock grazie soprattutto alla chitarra elettrica e qualche coloritura jazzy. Un’introduzione con chitarra classica, pianoforte, violoncello e violino determina la chiave di lettura sui paesaggi che ci proporrà il prosieguo dell’ascolto con immagini dei cieli e abbracci di libertà. Ma è solo il prologo, poi è notte fonda con il buio fisico e quello metaforico. La notte intesa come cecità personale e del potere. Un incubo vissuto attraverso una fuga verso il sole – quasi un rimando evangelico – da dove si intravedono le torri del potere. È una sorta di ora del lupo, quel momento in cui la notte sta per passare e s’avanza l’alba; l’ora in cui statisticamente nascono più bambini e muoiono più persone. L’ora di estrema debolezza della persona, figuriamoci di un innamorato.

“Quando ho raccolto le canzoni da registrare”, rivela Antonio Clemente, “mi sono accorto che raccontavano tutta una storia unica, quella tra me e mia moglie. Ma in realtà potrebbe essere la storia di chiunque. Così a ognuna delle parti della storia corrisponde una canzone”. I quattordici quadri, infatti, non sono altro che una riflessione sugli eterni problemi dell’uomo. Dieci anni di vita proprio come nelle “Scene da un matrimonio” di Ingmar Bergman con cui troviamo alcune analogie: si va dall’innocenza del sentimento al panico della crisi quando il sole cala. Pur non arrivando all’arte di nascondere la spazzatura sotto il tappeto, come accadeva nel film bergmaniano, anche qui marito e moglie si rinfacciano il raffreddamento del loro rapporto. È con una bossa nova da cui l’album prende il titolo il titolo del CD che la coppia cerca di superare le difficoltà della vita insieme; il duetto di Clemente con Talitha Knight è accompagnato da un gruppo di ottimi musicisti: Manuel Perasso (chitarra classica), Fabrizio Zingaro (pianoforte), Michele Bensa (contrabbasso che in altri brani suonerà anche il basso elettrico), Marta Caccialanza (flauto traverso). Negli altri pezzi suoneranno Simone Cricenti (violoncello), Davide Bertoletti (batteria), Andrea Carozzo (fisarmonica), Alice Nappi (violino), Paolo Magnani (chitarra elettrica), Alessandro Ginevri (flauto traverso); Simone Dabusti (tromba), Aurélien Congrega (bouzouki irlandese).  Clemente inventa anche un neologismo, “Nostalgioia”, perché il ricordo di certi eventi importanti suscita una sottile allegria mista al rimpianto. È una lucida follia che si verifica nella speranza che debba passare la nottata e si possa rivedere la luce. A questo punto, nel racconto, è passato un lustro, siamo alla metà del percorso, dopo il valzer che descrive il sentimento della disillusione per cui pure “il sole è imbarazzato”: tromba e pianoforte disegnano un dialogo interiore dove il cuore non fa più rima con amore ma con dolore. Dalla tavolozza canora, Clemente sceglie il sole che tramonta e le nuvole rade color della speranza. Il cielo si colora di rosso amaranto ed è questo il titolo di una canzone costruita sulla base del folk irlandese, ponendo una domanda sul senso psicologico dell’amore, spesso un equivoco per chi cerca nel partner la possibilità di vedere esaltata solo la propria immagine. E siamo alla fine. La nottata degli incubi è alle spalle e l’ultimo brano, dal sapore di flamenco vagamente arabeggiante è una summa del disco: c’è il ripensamento della storia decennale ma rivista, stavolta, con gli occhi della consapevolezza. In definitiva, chi sostiene che la canzone d’autore e che il CD a tema sono morti è smentito da dischi come questi, nati attorno a un progetto e sviluppati con ricercatezza. 

Pubblicato su Extra Music Magazine, 15 settembre 2020

 

Pianissimo di Henry Carpaneto

di Alfredo Franchini

È un fiume il nuovo disco del pianista Henry Carpaneto, prodotto da Tony Coleman, lo storico batterista di B B King. Un fiume con l’essenza della black music, nutrito da molti affluenti e tanti rigagnoli che si chiamano swing, rhythm and blues, funk e jazz. Del resto, l’album è stato prodotto tra l’America di Nashville e Leivi negli studi della OrangeHomeRocords, un’etichetta che punta sulla musica di qualità.

Si chiama Pianissimo, un titolo che lascia all’ascoltatore diverse chiavi di lettura: è evidente il richiamo al pianoforte ma c’è anche il segno della lentezza. Non è un caso che il disco venga a sei anni di distanza dal tour americano di Carpaneto, pianista apprezzato oltreoceano e nominato Best European Blues piano player dalla rivista specializzata Blues Feelings-Trophées France Blues; e da quel tour era scaturito il primo album “Voodoo Boogie”. Dopo tanti concerti in Europa e in America, eccoci a Pianissimo: dodici tracce di cui nove inedite e tre prototipi di pura energia, pianissimo ma mica tanto! Traspare la magia della creazione artistica, fuori dagli standard abituali: una matrice che dà all’anima blues un senso di libertà e allo swing l’espressione ritmica esatta. Un disco multicolore con il piano che va dalla pacatezza all’energia, i fiati di Nashville, i sassofoni tenori e baritoni, la chitarra dirompente negli assoli.

E non manca un pezzo in cui il pianista ligure si cimenta con l’organo Hammond, lo strumento che negli anni Sessanta contribuì a cambiare i suoni nel mondo della musica popolare, soul e anche jazz. Lo strumento, precursore di tutti i sintetizzatori, imita qualsiasi timbro, dall’organo al violino all’oboe e in passato ha unito la musica classica al rock. Carpaneto, che nasce con il blues, lo utilizza anche nello show live e in questo disco spicca la sinergia tra la tromba, l’organo stesso e la chitarra. Pianissimo che ha tre ospiti internazionali di grande rilievo, oltre a Coleman suonano Waldo Weathers che per quindici anni ha accompagnato James Brown, e Lucky Peterson, si colloca nel mercato internazionale. “Ci sono voluti sei anni per arrivare a questo disco”, spiega Henry Carpaneto, “e anche per questo ho voluto chiamarlo Pianissimo perché c’è stato un percorso lento. 

Anni in cui ho visto le mie idee prendere forma e raggiungere un traguardo che oggi mi rappresenta in pieno”. S’inizia con una cover di Ike Turner per esaltare l’energia del drumming di Tony Coleman. Seguono pezzi da cui traspare l’amore per Ray Charles e persino per Van Morrison in una originale soul ballad. Assieme a un gruppo storico di musicisti italiani, (Pietro Martinelli, basso; Paolo Maffi, sax; Stefano Bergamaschi, tromba), completano il cast altri ospiti internazionali: Varney Green, Rod Allen, Freddie Holt, Josh Harner. Può sembrare strano ma in un lavoro così colorato di suoni, domina il silenzio. Non quello che si genera dagli intervalli musicali ma quello che riguarda la dimensione interiore di chi ascolta.

La costruzione del silenzio, infatti, non ha niente a che fare col giro di accordi perché qui le sonorità di Carpaneto sono complesse; emerge, invece, dagli interstizi degli arpeggi, nei suoni che si dilatano nella mente e producono emozione. O voglia di ballare, come accade nell’ultima traccia, Funk Thing, dove da una risoluzione armonica di Carpaneto nasce un tema che si sviluppa in assoli e in uno special che si ripete come “vamp” finale.
“Musicalmente parlando ho cercato di suonare il meno possibile”, spiega Carpaneto, “volevo dare enfasi alle note con un sound importante”. Il brano che rispecchia di più questa filosofia si chiama Empty, nome emblematico per esprimere la sensazione di vuoto. È la dimostrazione che anche un sound molto scarno può essere potentissimo proprio grazie ai silenzi e alle pause di cui parlavamo. 


“Quando per la prima volta ascoltai Henry al piano”, dice Coleman, “non pensai che fosse un musicista italiano. Ebbi la sensazione che si trattasse di un pianista black”. Forse per questo, in un disco realizzato tra l’America e la Liguria si può avvertire il colore di note che arrivano da molto lontano. 

Pubblicato su Extra Music Magazine, 18 luglio 2020

 

 

Paolo Morelli, l'armonia e il sogno

di Alfredo Franchini

 Negli anni Sessanta diventare figli dei fiori era facilissimo. Per prima cosa si acquistavano un paio di jeans su cui qualcuno disegnava sopra le margherite. I capelli dovevano essere fluenti e le basette ondulate; le ragazze si vestivano con lunghe tuniche indiane e indossavano tante perline. In sintonia con l’universo, lo slogan lanciato nei primi festival giovanili, promossi dalla rivista “Re Nudo”, era: “Fate l’amore non fate la guerra”. In quegli anni ruggenti eravamo un po’ tutti omologati su questo standard, tutti meno i ragazzi di un gruppo: gli Alunni del Sole, un ensemble che, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli Ottanta, vendette milioni di dischi, vincendo anche alcune delle manifestazioni dell’epoca come il Festivalbar riservato alle canzoni più gettonate nei juke box. La storia del gruppo – allora si chiamavano complessi - è raccontata in un libro appena pubblicato da Arcana, “Alunni del sole-Paolo Morelli, l’inventore dell’armonia”, scritto da Bruno Morelli, chitarrista e soprattutto fratello di Paolo cioè l’autore di tutti i testi e delle musiche di circa 150 canzoni. Il volume pubblicato da Arcana ci fa conoscere la storia del “complesso” che in realtà non era tale visto che tutte le canzoni erano composte da un cantautore, Paolo Morelli, il quale scelse di trincerarsi dietro il nome preso da un libro di Giuseppe Marotta.  Ma non è tutto: il racconto di quei formidabili anni mette al centro il ruolo delle case discografiche nella storia della musica italiana. Tempi in cui si poteva entrare in sala di registrazione per sperimentare nuove sonorità liberamente, senza vincoli di tempo. Il racconto di Bruno Morelli, coadiuvato nella scrittura da Antonio G. D’Errico, svela il rapporto degli Alunni del sole con Nanni Ricordi, Ennio Melis della Rca e, prima di tutti, Toni Casetta della Produttori Associati per la quale incideva anche Fabrizio De André che di Paolo Morelli divenne amico. In più occasioni Nanni Ricordi ed Ennio Melis proposero a Morelli di “abrogare” il nome del gruppo per valorizzare quello del cantautore Morelli ma l’interessato scelse diversamente. Il fondatore e leader degli Alunni del sole veniva da una famiglia di musicisti professionisti e lui stesso aveva studiato musica tanto da diventare un maestro nel comporre le melodie: nelle 150 canzoni pubblicate possiamo ascoltare un vasto ventaglio di soluzioni melodiche. Non si può dire altrettanto della varietà dei testi, sempre incentrati sull’ideale di un amore impossibile, perso, e addirittura solo sognato. Basta scorrere la hit dei 45 giri che ebbero record di vendite, da “Concerto” in cui cantava il  “ricordo di una notte che non finiva mai” a… “E mi manchi tanto”, versi di un passato che non va via dalla mente, per arrivare a Liù, il brano che vinse il Festivalbar come canzone più gettonata nei juke box italiani. Dicevamo che gli Alunni del sole non erano tra i figli dei fiori e nemmeno erano stati travolti dalla rivoluzione beat che aveva portato in Italia i suoni nuovi. Morelli si rifaceva alla musica classica e ai suoi studi del pianoforte. A regalare agli Alunni il successo del grande pubblico fu Renzo Arbore che li volle in studio per una trasmissione della Rai che, dal 1969 al 1971, fece epoca: Speciale per voi. Erano occasioni straordinarie perché venivano ospitati in diretta artisti di primo piano, accompagnati dagli Alunni del sole. Andarono in onda Lucio Battisti, gli Afrodite’s child, Barry Ryan e tanti altri, tutti “processati” da un pubblico fortemente ideologicizzato che accusò, ad esempio, Battisti di non essere impegnato politicamente. In quella trasmissione, Paolo Morelli si scatenava con sorprendenti evoluzioni al pianoforte. Vendere i dischi e trionfare in quelle manifestazioni che si chiamavano Cantagiro, Festivalbar, Canzonissima, Disco per l’estate, significava accrescere l’autostima e stimolarsi a migliorare. Quest’ultimo compito era assunto in pieno dai produttori musicali, Roberto Dané, Nanni Ricordi, Ennio Melis e quel Vincenzo Micocci a cui molti anni dopo Alberto Fortis avrebbe dedicato “Vincenzo e Milano” con la polemica contro Roma. Morelli non avrebbe voluto cambiare mai il proprio editore ma furono le contingenze a costringerlo. La prima volta avvenne con l’acquisizione della Produttori Associati da parte della Ricordi; un passaggio determinato dalla cessione dell’azienda dopo che Casetta aveva acquistato  il Castello di Carimate per farne un mega centro di produzione discografico. Fu un investimento eccessivo che la Produttori associati non poteva reggere nonostante gli anticipi intascati dalla Ricordi per la distribuzione dei dischi. L’altro passaggio di scuderia per gli Alunni fu quello da Ricordi a Rca; l’intento era di andare a lavorare con Ennio Melis, l’uomo che per trent’anni ha compiuto un autentico miracolo, realizzando sulla Tiburtina, a dodici chilometri da Roma, il maggiore stabilimento di produzione di dischi, sezione italiana della multinazionale americana. Una scelta, quella degli Alunni del sole, che non fu gradita da Nanni Ricordi: “Avete deciso di passare con la puttana di via Tiburtina”, chiese al fratello di Paolo il quale rispose per via diplomatica: “Dopo anni di vita milanese vogliamo rientrare a casa. E poi stiamo andando dal gigante di via Tiburtina”. Ma la motivazione più profonda della scelta era da ricercare nel distacco che avevano manifestato i produttori della Ricordi nel momento in cui la storica casa di edizioni musicali si avviava alla ristrutturazione. Storie della discografia di un tempo che fu. Il libro riporta stralci dei diari di Paolo Morelli ed è interessante scoprire che nacque un’amicizia con Fabrizio De André e che i loro  incontri nella sala di registrazione alla Produttori associati furono proficui: “La cosa più importante che ho imparato da Fabrizio”, scrisse nel diario il leader degli Alunni del sole, “è il suo modo di concepire l’intera costruzione di un album. Ho notato che in tutti i suoi lavori ha sempre scelto un progetto intorno al quale articolare le canzoni”. Morelli attraversa gli anni Settanta con dischi che ignorano completamente la scena della nuova canzone napoletana, quella rivoluzione in atto allora dall’etnorock di Napoli Centrale, all’ironica fantasia di Edoardo Bennato sino alla nuova frontiera di Pino Daniele. Ma a Napoli gli Alunni andavano comunque a pescare nella tradizione rivestendola di musica classicheggiante, come accadde con “Tarantè” e con “A Canzunciella” che sarebbe stata ripresa da due milanesi doc come Enrico Ruggeri e Ornella Vanoni. Musiche rivestite dai suoni delle nuove tastiere che erano uscite sul mercato in grado di simulare intere sezioni i d’archi, i cori e altri strumenti dell’orchestra classica. In realtà il legame con la canzone napoletana era caratterizzato da una forte riconoscibilità anche in brani che per tanti anni Morelli aveva cantato in italiano perché la musica abita a Napoli. La storia degli Alunni del sole ci offre poi l’immagine intima di un cantautore introverso che addirittura rompe i rapporti col mondo esterno, chiuso in casa ad esercitarsi sette ore al giorno al pianoforte e poi a dipingere quadri di dimensioni sempre più grandi. Ma c’è una costante: in ogni forma d’arte, Morelli si esprime sempre con nostalgia. Di questo ne parla apertamente anche in una pagina tratta dal diario: “La relazione tra nostalgia e la ricerca del senso della vita? Se la prima mi riporta alla passione della mia adolescenza, la seconda implica di volgere lo sguardo verso il futuro a quanto non ho ancora realizzato appieno, a qualcosa da vivere che non ho ancora vissuto avvertendo il desiderio di mettermi in gioco” … Solo che nelle canzoni la nostalgia è vissuta pure nel presente. È nostalgia di quello che poteva essere e non è stato ma è anche il rimpianto della propria casa, quella dell’infanzia a Napoli, lasciata a 18 anni per andare a cercare il successo nella capitale. Nella vita reale, Paolo sceglie di vivere a casa col fratello Bruno. Ma è una vita appartata. Di sera poche volte si ferma a cenare; una tazza di latte gli basta e poi s’intrattiene al telefono con una donna, l’amore grande, eterno e cantato in tutte le composizioni forse nella convinzione che sia l’unico modo possibile di vivere. Un amore sognato e perfettamente riuscito anche se vissuto da lontano, sapendo che solo quella donna dall’altro capo del telefono lo avrebbe capito. La vita di Paolo si chiuse per un infarto nell’autunno del 2013. Non è un luogo comune dire che da un po’ di tempo era cambiato: Bruno racconta di aver chiesto al fratello se fosse vero che i sogni belli non finiscono. “Nunn’è overo, arriva ‘o mumento che pure i sogni svaniscono” fu la risposta di Paolo. Poi una mattina di quell’autunno, i due fratelli uscirono insieme in città, a Roma: Paolo aspettava in macchina che Bruno finisse le compere. Quando Bruno tornò, guardando dal finestrino dell’auto, ebbe l’impressione che il fratello si fosse addormentato. Non era così, il suonatore di ricordi di era assentato definitivamente.  

Pubblicato su Extra Music Magazine, 27 aprile 2020

Alessandro Quarta, il tango più sensuale

di Alfredo Franchini

Famoso in tutto il mondo e proclamato dalla Cnn “Musical Genius”, ad Alessandro Quarta c’è voluta la partecipazione al festival di Sanremo per dargli la popolarità quando l’anno scorso accompagnò Il Volo col suo violino. Il musicista salentino, 44 anni, che ha collaborato con Celine Dion, Mark Knopfler, Boy George e ha composto la colonna sonora di diversi film americani, ha pubblicato un disco e un Dvd dedicato ad Astor Piazzolla e quindi al tango, il sentimento che balla, quel ritmo che, grazie alla vocazione cosmopolita, ha assunto nuove identità in ogni parte del mondo. Quarta plays Piazzolla, undici brani per riconciliarci con la musica senza etichette dove, oltre al violino del Musical Genius suonano il piano di Giuseppe Magagnino, la chitarra di Franco Chivirì, il basso di Michele Colaci. la batteria di Cristian Martina e la fisarmonica di Vince Abbracciante. S’inizia con Milonga del Angel e per Quarta, che ha accompagnato Roberto Bolle in una memorabile serata in piazza del Duomo, è facile immaginare la scena: movimenti lenti, due corpi vestiti ma che sembrano nudi e trasudano ormoni pronti a sventrare le loro ombre. È tango, è sensualità. Segue Fracanapa e qui il ritmo pulsa forte, veloce, indomabile. I corpi si muovono in un turbinio di movimenti decisi, una deflagrazione di emozioni. È un tempo incalzante, improvviso come una tempesta, fulmineo. Si legge nel libretto che accompagna il CD: “Non capisco se è una sporca scopata sotto una pioggia battente o un nobile tango, gentile ed educato. Fatto sta che tutto ciò induce i miei sensi e il mio corpo a un’esplosione imponente”. Libertango potrebbe essere l’essenza del musicista: “Il violino non è uno strumento”, riporta il libretto, “ma un’estensione del mio corpo. Anche se troppe volte lo vedo come una donna, quella donna che fa mio il suo corpo. Il riccio… il suo volto, le fasce… i suoi fianchi, la tastiera la sua schiena e il suo seno, le corde sono il suo ventre. La f… le sue labbra per ascoltare il suo e il mio piacere”. Alessandro Quarta, polistrumentista, suona anche il piano e la chitarra, è in realtà il violino con cui iniziò a cimentarsi già a tre anni. Ma è il temperamento vigoroso, l’esplosione di energia che lo contraddistingue e che lo induce a suonare dalla classica al jazz, al blues. Certo il suo approccio non è quello di un musicista classico nonostante abbia fatto parte dell’orchestra Symphonica Toscanini diretta da Lorin Maazel. “Tutto ciò che è etichettato è di per sé pregiudizievole”, ha spiegato Quarta, “se mi incontri per la strada, lo so, posso sembrare un evaso da un carcere messicano, non sono rassicurante come potrebbe essere un bancario in giacca e cravatta; l’abito spesso fa il monaco ma il mio è un paradosso perché vorrei dire che lo stesso accade in musica: non si deve mai giudicare prima di ascoltare”. E allora ascoltiamo questo violino straordinario che non è solo lo strumento del diavolo come credettero coloro che ebbero la fortuna di assistere alle esoteriche esibizioni di Paganini ma è soprattutto uno strumento passionale. Perché riproporre oggi il tango di Astor Piazzolla? “Volevo riportarlo alle atmosfere in cui quella musica è nata dalla sensualità alla sessualità”, ha detto Alessandro Quarta. E allora tutto quello che non possono dire le parole è raccontato dalla musica in giro per il mondo. Come il tango “porteno” cioè portuale, un ibrido di danze locali creole e nere con il ritmo della habanera e con elementi melodici armonici e formali di musiche popolari, soprattutto di origine napoletana, portati dagli immigrati a Buenos Aires. Quarta, con la sapienza degli innovatori, unisce tutti gli elementi con la sua musica senza etichette che lo ha portato alla fama più all’estero che in Italia. Ci sarà un motivo? Certo la cultura nel nostro Paese è sottostimata ma Quarta preferisce dare una riposta tecnica: “Ho sempre creduto che per fare una grande carriera ed arrivare al successo non basti solo il talento ma ci voglia molta disciplina e un’attenzione maniacale nella cura dei dettagli. È quello che faccio nella mia musica con il violino, svestendolo dal frac per impreziosirlo di emozioni, di arte, cultura e di innovazione”.

Pubblicato su Extra Music Magazine, 16 aprile 2020

Ghirardato tra guerra, pace e anarchia

di Alfredo Franchini

SE negli ultimi tempi l’anarchismo non ha prodotto nuove dottrine, nuove scuole, nuove correnti d’idee, è invece più vivo che mai nelle canzoni di Carlo Ghirardato, musicista emiliano con cromosomi corsari tedeschi, che ha in De André la sua stella polare. Così, dopo alcuni dischi di cover dedicati a Fabrizio e dopo circa 500 serate sempre in bilico tra musica d’autore e anarchia, Ghirardato ha fatto il salto pubblicando Canzoni tra guerra e pace un concept album che ha come filo conduttore la violenza degli Stati, cioè la guerra. Sono undici brani che spaziano nel tempo passato con le parole di Sergio Endrigo, Boris Vian, Italo Calvino, e ci illuminano sul presente suggerendoci che la globalizzazione non si può fare coi soldi ma con la conoscenza. Ma la svolta di Ghirardato passa anche per la qualità degli arrangiamenti e per il suono dei musicisti: Michele Ascolese (chitarre, bouzouki, requinto), Mark Harris (tastiere), Cristiano Califano (chitarra classica), Alberto D’annibale (violino), Fabio Fraschini (basso), Denis Negroponte (fisarmonica e clarinetto), Marco Rovinelli (batteria), Raul Cuervo Scebra (percussioni), Elio Tatti (contrabbasso). Tre minuti d’introduzione, un mix di Pink Floyd, Pete Seeger e una citazione da De André: “Dove sono i generali che si fregiarono nelle battaglie con cimiteri di croci sul petto” … Subito dopo i figli della guerra iniziano il racconto con “Dove vola l’avvoltoio”, il testo di Italo Calvino con musica di Sergio Liberovici scritto per Cantacronache, un gruppo di musicisti, letterati e poeti costituitosi a Torino nel 1957 con lo scopo di valorizzare il mondo della canzone attraverso l’impegno sociale. La voce baritonale e calda di Ghirardato vola sulle note di Ascolese e il contrabbasso di Tatti in un brano classico dal tono manouche. Ma in un disco dedicato al popolo, la scelta non poteva non cadere su una pluralità di lingue, italiano, inglese, francese, tedesco e il dialetto napoletano di ‘O surdato ‘Nnammurato in una versione intimistica, più vicina a quella della grande Anna Magnani rispetto alle decine di interpretazioni inutilmente gridate al vento. Da rimarcare che ‘O surdato ‘Nnammurato si apre con un grappolo di note dell’Inno di Mameli, volutamente sporcate quasi a ricordare che non possono essere considerate sacre battaglie quelle che hanno visto un massacro di uomini. Segue un brano del cantautore americano Irvin Gordon, autore di Two Brothers, una canzone popolare sulla guerra civile per poi lasciare subito spazio a una sorprendente “O Gorizia tu sei maledetta” laddove, all’interno di un brano acustico con chitarra e fisarmonica, viene inserita una strofa rock: “I ragazzi del 99 decimati, mutilati derubati”… che poi non sono altro i ragazzi che un secolo dopo si devono raffrontare con un potere che si è riciclato. Ghirardato guarda ancora alla canzone napoletana, madre di tutta la canzone italiana, con Reginella, in una versione retta dalla voce e dalla sola chitarra classica; clarinetto, contrabbasso e chitarra, invece, sostengono la disperazione del Disertore di Boris Vian, cantata in francese. Segue “I come and stay at every door”, con le parole del poeta turco Nazim Hikmet, un bel flusso lirico dove dominano le tastiere di Mark Harris e la chitarra di Ascolese. La storia di una famiglia scacciata da Pola, dall’Istria, cioè la storia vissuta e cantata da Sergio Endrigo in 1947, è ripresa qui con grande delicatezza nell’arrangiamento che accentua la nostalgia e la rabbia di chi ha subito una ferita al cuore. Ghirardato ci parla della guerra da angolazioni diverse: “Solamente chiedo a Dio/ che il dolore non mi sia indifferente/ che la morte secca non mi trovi/ vuoto e solo, senza aver fatto abbastanza”, è la logica conclusione di un disco rosso di sangue della guerra, un brano di Leon Gieco che ricorda la musica andina. La chiusura è riservata alla celebre Lili Marlen con un arrangiamento che esaspera la drammaticità della canzone cantata da Marlene Dietrich con un tempo rallentato dal piano elettrico di Mark Harris che centellina note di dolore. Canzoni tra guerra e pace è la personale battaglia di Carlo Ghirardato per portare la bellezza della musica al cuore del potere così come aveva fatto in precedenza pubblicando l’Ode a Passannante, l’anarchico protagonista di un attentato fallito al re Umberto primo e che era stato celebrato in una poesia di Giovanni Pascoli. Il nuovo disco, registrato dalla Playrec di Roma, però va oltre i sentimenti che pure ci sono e ha lo scopo principale di aiutarci a leggere il libro del mondo attraverso le parole cangianti e la voce che Ghirardato modula per cercare complicità in chi ascolta. Il momento storico che ci è dato di vivere è in quelle undici tracce e la scritta sulla copertina del CD è chiara: “Per tutto quello che è accaduto, per quello che accade ancora, i cavalieri erranti son trascinati via”.

Pubblicato su Extra Music Magazine, 8 marzo 2020