di Alfredo Franchini
La California prima l’ha sognata da un angolo di Napoli e poi l’ha vissuta suonando con i guitar heroes. Dal mandolino della nonna, dalla musica di Carosone e dal prog degli Osanna in cui suonava il fratello, alla vita in Inghilterra, poi a Los Angeles e ora a Berlino. Da quando lasciò l’Italia a diciotto anni, per Corrado Rustici la musica ha sempre una nuova frontiera da varcare. Chitarrista, compositore, produttore, un ponte ideale per unire culture musicali diverse che restano stampate nelle sue fotografie accanto ad Aretha Franklin, Miles Davis, Eric Clapton, Whitney Houston. Rustici ha pubblicato un nuovo disco, Interfulgent, e ne ha parlato in questa intervista esclusiva per Extra Music Magazine.
_ Il tuo nuovo disco si intitola Interfulgent: una preposizione (inter) e un verbo latino (fulgeo) che si possono tradurre letteralmente “brilla in mezzo”. In un momento così buio perché hai scelto un titolo allusivo?
“Interfulgent è qualcosa che sta per venire, una speranza ma è anche un bel suono… È vero, stiamo vivendo un momento cupo che, in realtà, viene da lontano, da due decenni di decadenza. È un’onda che stiamo cavalcando dalla fine degli anni Settanta, tutto è diventato piatto, non abbiamo il tempo per approfondire niente e, quello che è peggio, il “sentito dire” viene scambiato per verità. Tanti, pur di apparire, rinunciano a essere quello che sono. Lo chiamerei post-moderno. Mi chiedi dove vedo la luce? Lo so bene che sono tempi difficili e i musicisti ne hanno risentito più di tutti ma la pandemia ci dà l’opportunità di riflettere su ciò che è importante. Anche per quanto riguarda l’arte”.
_ Sbaglio o il nuovo disco lo avevi iniziato a comporre prima che la pandemia si manifestasse?
“Sì, ho incominciato a scrivere mentre ero ancora in California prima di trasferirmi a Berlino. L’idea era quella di costruire un suono nuovo che ci conduca al trans moderno perché dopo la risacca ci dovrà essere per forza un’evoluzione, un’onda nuova. Ho fatto una ricerca sul suono, volevo ricollocare la chitarra in un contesto moderno perché purtroppo è uno strumento che sta diventando irrilevante nella musica contemporanea”.
_ Possiamo dire che la chitarra è sparita nella musica più diffusa dalle radio?
“Purtroppo, è diventata un po’ come il sassofono, legato a un genere vintage, malinconico e nostalgico. Sono un chitarrista e cerco strade nuove, così mi sono inventato dei suoni che si sono trasformati in un pedale che nascerà a settembre”.
_ Di che cosa si tratta?
“È un pedale che sarà costruito dalla Dv Mark, un’azienda italiana con cui lavoro, è frutto di una ricerca sul suono per dare valore all’espressività. Ora siamo di fronte a un piattume determinato dal copia e incolla degli ultimi dieci anni”.
_ In musica esiste il copia e incolla?
“Noi abbiamo tanti interpreti e pochi musicisti, ci sono troppi ragazzini al computer che copiano e incollano i suoni lavorando con un’aspirante “celebrità” che canta” …
_ Più che del Conservatorio mi sembra di parlare delle scuole elementari.
“Ecco perché dico che è il momento di fermarsi a riflettere. Non abbiamo bisogno di propagare l’industrializzazione delle note musicali. L’industria discografica non c’entra niente con l’arte: sono stati bravi a confondere le acque tra entertainment e la musica. Hanno frastornato i ragazzi mettendogli addosso la voglia di diventare popolari”.
_ Sì, ma allora come fai a essere ottimista se non ci sono più editori musicali?
“Perché l’arte non ha bisogno dell’industria. Dopo quarant’anni di lavoro posso dire di trovarmi in uno stato di grazia e non mi sento di appartenere a questo modus operandi della musica popolare. Cerco di fare arte, non frequento club, non voglio fare intrattenimento”.
_ Però hai avuto una lunga collaborazione con Zucchero che sfociò in alcuni lavori come “Oro incenso e birra” e “Spirito di vino” per non parlare del Miserere con Pavarotti.
“Di quello son molto contento: producendo Zucchero abbiamo davvero contribuito a cambiare il sound della musica popolare italiana”.
_ Abbiamo parlato del ruolo della chitarra ma nel tuo disco dai molto spazio alle tastiere.
“È vero perché non volevo fare un album da chitarrista. Uso lo strumento per esprimermi attraverso il pedale: la cosa più importante è la composizione, creare la musica che possa arrivare alla gente. Cerco sonorità diverse. Sono cresciuto musicalmente seguendo le orme di mio fratello Danilo che era leader degli Osanna: in quegli anni tu dovevi inventare cose nuove non dovevi copiare gli altri per avere una chance. Sono legato per sempre a quei valori”.
_ A proposito degli Osanna che era uno dei gruppi più importanti degli anni Settanta, devo dire che nel primo brano dell’album, Halo Drive, trovo qualcosa legato al Prog. Mi sbaglio?
“Ma torniamo al discorso delle sonorità: il prog per me era la scusa per trovare nuove combinazioni. Progressivo non è legato necessariamente agli anni Settanta ma a un genere di musica che vuole andare avanti. E mi sembrava giusto sfruttare le mie influenze che poi vanno dalla classica alla musica americana, al pop. Mi sono sforzato di trovare un modo originale per suonare la chitarra”.
_ Tu sei un compositore, un chitarrista ma anche un produttore. Che significa produrre un artista?
“Il mio modello è stato quello di George Martin che tutti definiscono il quinto elemento dei Beatles. Era l’uomo che contribuiva alla realizzazione, alla scrittura, a mettere a posto la dinamica dei brani. Se fai il produttore devi avere la consapevolezza musicale di quello che stai facendo: non vai da un meccanico se ti serve un dentista. Ci sono persone che si definiscono produttori solo perché sanno usare un programma ma magari sono dei fonici. È un mestiere che io concepisco come se fosse quello del regista e del direttore della fotografia i quali controllano il budget disponibile e danno certezze sul risultato del prodotto”.
_ Non sempre ci sono rapporti ottimali tra produttori e artista?
“Stavamo parlando di un prodotto che devi consegnare alla label in modo che poi questa etichetta possa promuoverlo al meglio. In parallelo, allo stesso tempo, si deve dare all’artista la gioia di sentirsi libero, esprimendosi al meglio”.
_ Ci sarebbe tanto da raccontare e dovremmo fare una lunga lista dei grandi con cui hai suonato, da Miles Davis a Eric Clapton. Potremmo parlare dei dischi italiani prodotti in America con Elisa e con Cristiano De André. Limitiamoci a Whitney Houston…
“Forse è la voce più bella con cui abbia mai lavorato. Eravamo in studio per registrare un album di Aretha Franklin e venne una giovanissima Whitney. Aveva una canzone, How will I know che, secondo il produttore Michael Walden, doveva essere completata nell’arrangiamento. Quel singolo fu un grande successo e dopo lavorammo con Whitney a un altro disco. Il fatto che tra tanti tu abbia scelto Whitney Houston è perché volevi sapere com’era?”
_ Ora fai tu le domande… hai detto che è stata una delle voci più belle ma non dici che grazie a lei sei stato citato pure in un romanzo, American Psycho di Bret Easton?
“È vero… mi cita quando il protagonista si entusiasma per Whitney Houston. Che ti devo dire, era bella, dolce ma con un grande grinta, molto sicura di sé, consapevole dei suoi mezzi”.
_ Una domanda banale ma è una curiosità per molti: è più difficile fare un assolo a velocità strepitosa tipo Joe Satriani, o un pezzo lento con le note scandite tutte uguali?
“L’unica cosa che conta è quello che vuoi dire con la chitarra, sono importanti le dinamiche all’interno della performance. È come la parola: se ho a disposizione un vocabolario più esteso potrò descrivere meglio quello che sento. Facciamo una prova, (e la fa davvero, Ndr): io ti dico una frase velocemente per farti capire le intenzioni oppure la stessa frase te la dico lentamente per farti pesare le mie parole”.
_ Quindi mi stai dicendo che si deve dire qualcosa di vero con la chitarra al di là del virtuosismo?
“Vedi, ci sono migliaia di chitarrai, scusa ma li chiamo così. Quelli fanno una sorta di selfie musicale che forse è utile per i teenager. In realtà anche noi quando avevamo quell’età passammo tanto tempo sul giradischi mandando avanti e indietro la puntina per imparare qualche passaggio musicale. Ma non è musica: è il dito che punta la luna e sbagli se guardi solo quello. Non esiste facile o difficile. Nel post-moderno c’è stata l’illusione che tutti potevano essere artisti: non è vero! L’arte è interpretata da pochi e di solito quei pochi vanno contro le cose che vuole la gente. Il modo musicale non è il chitarrismo, il manierismo, non conta la forma ma le intenzioni”.
Pubblicato su Extra Music Magazine, 16 aprile 2021