Ho conosciuto Fabrizio De André alla metà degli anni Settanta quando aveva deciso di cantare in pubblico per mettere da parte i soldi che gli avrebbero permesso di comprare la terra su cui avviare un’azienda agricola. Tanto per capirci, aveva già scritto capolavoro immensi come “Tutti morimmo a stento”, “La Buona novella”, “Non al denaro, non all’amore né al cielo”, “Storia di un impiegato” e “Volume VIII”. Prese una casa in affitto a Tempio Pausania e io, poco più che ventenne folgorato dalla sua poesia, lo chiamai al telefono per parlargli dei miei problemi sentimentali: “Sto attraversando una crisi che forse avrai avuto anche tu”, gli dissi e lui rispose: “Ho attraversato tante crisi che sicuramente la tua coinciderà con una delle mie. Vieni a Tempio e ne parliamo”. Era facile entrare in sintonia con un uomo sinceramente interessato alla gente comune e persino alle pene d’amore di un giovane. All’Agnata, nella vallata sotto il monte Limbara, Fabrizio ospitava tutti noi che, affascinati dalla sua personalità, chiedevamo risposte sulla vita mentre lui prendeva le nostre storie e i nostri caratteri da mettere in canzone. Ecco perché vent’anni fa, nel febbraio del 1997, quando Fabrizio era ancora in vita, decisi di pubblicare un mio libro su di lui. Volevo dire grazie all’uomo che per me, e per almeno un paio di generazioni come la mia, era stato il “Socrate del 2000”. Nel mio caso, poi, veniva in aggiunta un altro motivo: per una ventina d’anni avevo avuto la fortuna di essergli amico, di averlo frequentato in Sardegna e anche nella sua casa milanese; e tra i regali che Fabrizio mi ha fatto c’era stato anche quello di ospitarmi sul suo camper durante la tournée estiva del 1982. Il libro doveva soddisfare la mia urgenza di mettere in fila le “lezioni” che avevo preso da Fabrizio De André come peraltro capitava a tutti coloro che gli stavano accanto: lezioni che lui impartiva senza volerlo ma essendone certamente consapevole. Si parlava di politica e di economia, gli argomenti dettati dalla sua ansia di giustizia sociale, ma anche di arte, di cucina, di amori presenti o lontani nel tempo perché con lui semplicemente si viveva. I consigli sulle questioni sentimentali, si sa, sono sempre sbagliati e questo è evidente anche dalle canzoni di Faber in cui l’amore, voluto come eterno, è smentito dal caso. Però posso dire di essere stato sorpreso quando una decina d’anni dopo, nella sua casa milanese, si ricordò di quella ragazza che venne con me a Tempio e per la quale gli telefonai confessandogli la mia crisi. Questo era Fabrizio. Figlio di una delle migliori famiglie di Genova, conoscitore della buona borghesia, peraltro da subito rinnegata, poeta che ha scritto dalla prima canzone sino all’ultima, per gli emarginati, i diseredati quelli che sono sempre state le vittime di questo mondo. Sino a formare quello che il buon don Gallo aveva definito “il Vangelo secondo De André”.
In quegli anni Settanta, con una società autoritaria e la guerra interna del terrorismo, gli ultimi della società formavano il “sottoproletariato” ma di questo ceto se ne occupavano solo Pasolini e pochi altri come Fabrizio. Per noi giovani ascoltare quelle storie - perché Fabrizio era un grande narratore di novelle - era un raggio di sole. Mentre dal giradischi si levava la sua voce, sembrava che Faber stesse cantando per ciascuno di noi. E questo l’avrei capito molti anni dopo, alla prima presentazione del mio libro alla Fnac di Milano. Fui avvicinato da un uomo che aveva la mia stessa età ma non la fortuna di poter usare le gambe perché era costretto a vivere su una carrozzella: “Quando ascoltavo la canzone del Malato di cuore”, mi disse, “io che sono handicappato, per la prima volta, mi sentivo normale”.
Era un eretico Fabrizio, convinto che gli scrittori, i poeti, i cantautori dovessero essere un anticorpo della società. Insomma era certo che gli artisti non dovessero integrarsi al contrario di quegli intellettuali che negli anni Settanta si definivano “organici” perché si rivolgevano non alla gente ma a un partito dal quale traevano molti benefici. E mi viene in mente il verso: “Intellettuali d’oggi, idioti di domani/ ridatemi il cervello che basta alle mie mani”... Stesso discorso per quei cantautori che, invece di usare le loro voci potenti, preferivano cantare “per i longobardi e per i centralisti/ per l’Amazzonia e per la pecunia/ nei palastilisti e dai padri Maristi”. Ma Fabrizio non condivideva nemmeno il ruolo degli intellettuali stile anni Ottanta, tipo rockstar, perché la letteratura o la poesia ti deve poter urlare in faccia: “La morte verrà all’improvviso, avrà le tue labbra e i tuoi occhi”, come scrisse in una delle sue prime canzoni, e quando dice questo non ci può essere sullo schermo in sovrimpressione la marca degli occhiali da sole. Motivo per cui non ha mai voluto che le sue tournée avessero uno sponsor. (Gli fu offerto nel 1991, in occasione del tour Le nuvole, pure costoso, ma rifiutò).
Ho detto che il mio libro fu pubblicato nel febbraio del 1997 mentre Fabrizio stava per varare la tournée di Anime salve. Gli feci avere il testo con il timore che può avere uno scolaro davanti al maestro. Dopo aver letto il libro mi telefonò per ringraziarmi: “Mi hai fatto un bel regalo, nel leggerlo ho rimesso ordine ai ricordi della mia vita”. Forse non era vero perché spesso Fabrizio voleva far crescere l’autostima degli amici ma mi piace pensarlo: dicendo così mi fece un bellissimo regalo. Il libro successivamente è stato ristampato più volte ed è stato anche distribuito con i quotidiani Il Secolo XIX di Genova e la Nuova Sardegna quando era ancora un giornale regionale. Il filo conduttore di queste conversazioni ai margini con le quali ricostruisco le lezioni ricevute, resta quello dei concerti: dalla prima apparizione in pubblico nel 1975 alle successive tournée del 78-79, dell’81-82, dell’84, del 91-92 e del 97-98. Quando fu pubblicato il mio libro, dei concerti di Fabrizio ne avevamo parlato solo i quotidiani. Qualche anno dopo Elena Valdini, colonna della Fondazione De André, avrebbe dato alle stampe il bel Tourbook, un volume davvero esaustivo per ricostruire il clima di quegli anni. A distanza di vent'anni potrei anche revisionare il testo aggiungendo aneddoti e storie che all'epoca, per pudore personale ho censurato. Ma alla fine aggiungerebbero poco alla grandezza dell'uomo.