EXTRA MUSIC MAGAZINE

Le nove vite di Mauro Pagani

di Allfredo Franchini

Cercare accordi, andare a tempo con gli altri, è il segreto di una vita davvero speciale che Mauro Pagani, 76 anni, polistrumentista, compositore, direttore d’orchestra, ci racconta in un libro “Nove vite e dieci blues, (Bompiani, 222 pagine, 17 euro), dove l’autobiografia si dipana con il passo di un romanzo.

Una vita di incontri e di fughe: l’allontanamento da casa, il distacco volontario dal successo raggiunto, il trasferimento a New York, le passioni, l’attenzione per gli altri. Dal rock della Pfm con cui aveva avuto successo in America alla poesia di De André, dal Festival di Sanremo all’impresa delle Officine meccaniche, uno dei maggiori studi di registrazione audio e video. Un padre autoritario capace di spaccargli in testa il violino per poi portargliene uno dopo due ore dopo da cui ha imparato l’importanza di studiare. E non poteva essere diversamente per chi veniva dagli anni Sessanta quando all’esame di maturità – al liceo classico – si portavano le materie di cinque anni. Un diploma – dice – che oggi potrebbe equivalere almeno a una laurea triennale. La storia di Mauro è intrecciata con i cambiamenti dell’Italia, dalla rivoluzione beat al rock dell’impegno, quando la musica faceva parte del bagaglio culturale di ogni ragazzo. 

 Non si è fatto mancare niente, Pagani, andato via da casa a diciotto anni in giro per il mondo, partito in autostop con cinquemila lire in tasca. On the road, sulle ali di Kerouac, dei poeti della beat generation e di Bob Dylan. Erano gli anni in cui debuttavano discograficamente i Pink Floyd, i Doors, Jimi Hendrix, i Traffic, Janis Joplin, i Procol Harum. In America avevano esordito Frank Zappa e i Jefferson Airplane; in Inghilterra i Cream e John Mayall e i Bluesbreakers con Eric Clapton senza contare i Beatles. E tutti loro travolsero il mondo con una nuova onda sonora. Nasce il sound delle piazze, canti di lotta, di rabbia e di poesia diventano la colonna sonora dell’Italia nella convinzione che la musica contribuirà a cambiare il mondo. S’innalzano allora alcune frontiere musicali: gli Area con i loro pezzi d’avanguardia in cui dimostrano di aver intuito tante cose che sarebbero state suonate dopo; Demetrio Stratos, maestro della voce che praticava la diplofonia, una tecnica vocale della Mongolia che consente ad alcuni solisti di emettere contemporaneamente due voci distinte, una che accompagna e una che sale altissima modulando melodie inimitabili.

E poi il rock progressivo con il quale la Pfm scala le classifiche americane. Pagani compone “Impressioni di settembre”, la canzone che ha una caratterista dirompente per l’epoca: il ritornello non è cantato ma suonato con il moog; in America il brano “È festa”, un trionfo del suono, diventa “Celebration” e il gruppo scala le classifiche. Dura sette anni l’avventura da rockstar condivisa con Di Cioccio, Mussida, Dijvas ma, giunto all’apice del successo nel 1977, Pagani lascia la Pfm. Dopo aver girato gli States, si pone una domanda: “Che cosa vuoi fare da grande”? La risposta è il musicista e Pagani ritiene di saperne troppo poco e di dover studiare, non vuole continuare a cantare tutte le sere “Impressioni di settembre”. Un’altra vita gli si spalanca davanti portandolo a passo lieve verso la musica del mondo di cui allora nessuno sapeva niente. Non esisteva Internet, la radio non trasmetteva musica etnica, i dischi bisogna andare a comprarli in Grecia o in Africa.

Mauro compone anche colonne sonore e per una di queste, commissionatagli da Gabriele Salvatores per “Sogno di una notte di mezza estate”, Pagani si chiude nei mitici studi di registrazione del castello di Carimate dove, nello stesso periodo, Fabrizio De André registrava il disco dell’Indiano. Nel castello, comprato a caro prezzo dal discografico Antonio Casetta, gli artisti potevano soggiornare e a una certa ora del pomeriggio – per Fabrizio prima mattina – si susseguivano gli incontri tra Pagani e De André. Si erano conosciuti molti anni prima durante la registrazione di un disco di Faber, “La Buona Novella”, quando i turnisti in studio erano gli stessi musicisti che avrebbero fondato la Pfm. Ma da allora non si erano più rivisti. Pagani scherza: “De André mi volle per la tournée dell’Indiano perché, essendo io un polistrumentista, prendendo me poteva risparmiare un po’ di soldi”. In quei giorni al castello di Carimate tra i due nacque un sodalizio autentico, si capivano al volo. Pagani ha sempre sostenuto di aver imparato tanto da Faber a cominciare dalla scrittura delle canzoni: “La prima regola di Fabrizio era quella di non dare mai giudizi. Lui non dice chi è Bocca di rosa” … L’altra lezione la ebbe quando il capolavoro che avrebbe cambiato il corso della musica, “Creuza de ma”, fu pronto.

Fabrizio aveva scritto tutti i testi, Pagani la musica e pensava di dover ancora arrangiare quei sette pezzi che sembravano poco più di un provino. Fabrizio invece fu netto: “Il disco è questo, non c’è bisogno di aggiungere niente”. La musica vera non necessita di orpelli, sobrietà per un disco a cui all’inizio nessun discografico credette; David Byrne dei Talking Heads lo avrebbe indicato poi come uno dei dieci migliori dischi del decennio nel mondo. Nelle tante vite di Pagani c’è il capitolo delle Officine meccaniche, gli studi di Milano dove passa buona parte della musica di oggi e dove vivono ancora le utopie seguite da un ragazzo bresciano che si definisce il più terrone dei lombardi. Quel ragazzo che ama Napoli e anche per questo ha riscritto in chiave etnica gli arrangiamenti dell’Antologia napoletana per Massimo Ranieri; che ama la Sardegna e la sua musica sino a frequentare un corso di Launeddas, e ama la Liguria dove ha un rifugio.

Un uomo capace sempre di ricominciare da zero: solo qualche anno si era trasferito a New York per cercare nuovi accordi, ascoltare ed esibirsi nei piccoli locali per il gusto di suonare con altri artisti americani. Quattro anni passati di recente in una casa a poca distanza da Chinatown, dal Village e da Little Italy sino a quando si chiuse anche la pagina di quella vita. Poi due anni fa l’incidente: “Ero a casa”, racconta Mauro, “vidi il volto di mia moglie frangersi in diversi pezzi. Andai in ospedale e mi venne il coccolone”. Al risveglio nomi, facce, episodi erano scollegati. Era giunto il momento di ricostruirli in un libro: una foto di gruppo con un musicista. Da allora la sua vita è cambiata ma solo in apparenza: “Studio, scrivo, rifinisco e definisco ogni nota e alterazione godendo del piacere di immaginarmi come verranno eseguite e interpretate”. Nove vite in attesa di una nuova fuga.

 

Pubblicato su Extra Music Magazine, 25 ottobre 2022

Jastemma, l'altra faccia di Scampia

di Alfredo Franchini

 

Chi sono i morti di Scampia? Non sono coloro che sono stati uccisi a colpi di pistola ma quelli che sono spenti dentro, annientati da una vita che li ha dimenticati. Lo cantano gli ‘A67 nel loro ultimo disco, Jastemma, pubblicato da Squilibri, dieci canzoni sull’altra faccia di Scampia: il gruppo napoletano dopo una quindicina d’anni nei quali ha urlato di rabbia contro il malessere della vita quotidiana dedica ora un intero disco all’amore.

'A67 sta per il titolo di una legge, la 167, che aveva sancito la nascita dell’edilizia popolare in Italia dettando una nuova grammatica urbanistica e facendo nascere quartieri come quello di Scampia. Daniele Sanzone (voce), Enzo Cangiano (chitarra e programmazioni), Gianluca Ciccarelli (basso), Mirko Del Gaudio (batteria) ci raccontano nella lingua materna, il napoletano, che anche l’amore a Scampia non è che un imbroglio quando si vive una vita priva di luce. I registri musicali sono vari, dal rock al reggae, impreziositi dagli interventi degli special guest: Daniele Sepe (sax tenore), Luca Aquino (flicorno), Massimo D’Ambra (tastiere) e Elisabetta Serio (piano). Il CD, nel consueto formato di Squilibri, è accompagnato da un libretto con dipinti e disegni di Mimmo Palladino, nel quale quindici scrittori raccontano a modo loro le canzoni del disco.

Il risultato è un quadro di sentimenti attraverso racconti e poesie, ispirate dai paesaggi sonori dei brani scritti dagli ‘A67. E, come scrive nella prefazione al CD-book, Stefano De Matteis “il tutto regge alla perfezione, come la geometria perfetta di un uovo simile a quello di Virgilio che dà ordine al caos”.

L’amore, dunque, di chi vive ai margini all’ombra incerta del Vesuvio e sembra non avere alternative: di chi ha faticato sempre per dare ai figli quello che non ha potuto avere e poi ha dovuto prendere atto del fallimento. È il concetto del primo brano del disco, “Ammore mì, ci hanno imbrugliato”. Storie irrisolte da parte di chi “non cerca niente non un parola e tantomeno una promessa”.

 

Lo scrittore Marco Ciriello punta sul brano che dà il titolo all’album, Jastemma: “Un uomo bestemmiava/ contro se stesso/ la sua donna, la sua casa, la sua città/ il mare, il cielo, il vulcano/ contro angeli, santi e madonne/ Bestemmiava tutto il giorno/ e pure la notte/ Dava fuoco all’anima/ Una ventola/ che girava e bestemmiava/ Poi una mattina ha smesso / Ora vaga senza peso”. È un bestemmia la vita: “Me crisciuto, pasciuto, ‘mparato/ scurdato, jettato, lassato e schifato” – cantano gli A67 – ma è una bestemmia anche l’amore “una condanna che mi inchioda, un paradiso senza porte”.

È un linguaggio crudo, poetico, con scene di coppia degne di un film di Bergman: “Tu s’inzista, (che possiamo tradurre sei in gamba, N.d.R.), e carnale ma si te parte a capa si ‘na criminale”. E quando il mal di vivere non si sopporta più allora è meglio stare da soli: “La verità è che non voglio stare sotto questa luce e far vedere quello che sono, quello che faccio” … Pensieri che in questo concept album sull’amore diventano insopportabili nelle notti che non passano: è allora che si rivedono gli occhi di chi ci ha voluto bene. Occhi puntati su di noi “come una pistola che non sa a chi dovrà sparare”. La conclusione è amara: “Tutto finisce, tanto pe’ te ero ‘na pezza, ‘nu vestito can nun mietti cchiù, e ‘a colpa era ‘a mi se nun me vulevi”.

 

Il disco è stato registrato, missato e masterizzato a Napoli da Enzo Rizzo, Soulfingers studio. Gli scrittori che hanno contribuito coi loro racconti sono: Viola Ardone, Alessio Arena, Luigi Romolo Carrino, Giuseppe Catozzella, Marco Ciriello, Amleto De Silva, Luca Delgado, Gennaro Della Volpe (Raiz), Raffaella Ferré, Nicola Lagioia, Loredana Lipperini, Carmen Pellegrino, Angelo Petrella, Alberto Rollo e Gianni Solla. Un progetto performativo, originale e poetico, in cui i versi cantati e le note musicali germogliano in nuove pagine letterarie.

 Pubblicato su Extra Music Magazine, 10 giugno 2022

 

La nuova scuola genovese tra cantautori e rap

Scritto e ideato da Claudio Cabona

Diretto da Yuri Dellacasa e Paolo Fossati

Consulenza storica: Laura Monferdini

Musiche di Pivio e Aldo De Scalzi

Produzione: Gagarin Film con la collaborazione di Genova Liguria Film Commission

Distribuzione: Zenit Distribution

Durata: 72’

 

Di Alfredo Franchini

 

La canzone d’autore fu rivoluzionaria come oggi lo è il rap. Linguaggi diversi ma sentimenti identici: è la conclusione del docufilm “La nuova scuola genovese”, scritto e ideato da Claudio Cabona. Il film mette a confronto i pionieri della canzone d’autore coi giovani rapper mentre la terza protagonista è la città di Genova, la culla dei cantautori. On the road nei luoghi vissuti e cantati da De André, Tenco, Paoli,  tra le case colorate di Boccadasse, la basilica dell’Annunziata, i palazzi visti dall’alto, la collina, il mare. È Genova ma il rapporto canzone-rap esaminato nel film può essere letto in tutta Italia alla stessa maniera.  Chiedersi se Genova è la città dei cantautori – afferma Vittorio De Scalzi, storico musicista dei New Trolls – è come cercare di capire perché Liverpool abbia generato i Beatles o perché il rock and roll sia nato negli Stati Uniti. Gli amici al bar si chiamavano Tenco, De André, Bindi, Paoli, Giorgio Calabrese, i fratelli Reverberi, Lauzi; scrivevano in modo diverso rispetto ai canoni dell’epoca respirando nell’angiporto l’aria spessa, carica di sale, gonfia di odori. “Non cantavamo l’amore idealizzato ma le mignotte”, afferma Gino Paoli al rapper Tedua.  Poi avrà inciso pure  la vicinanza con la Francia e la presenza del porto dove i marinai portavano i primi dischi prodotti in America. “Genova è una città che dà stimoli forti”, spiega Max Manfredi per il quale è sbagliato mettere in contrapposizione cantautori e rapper: “L’unico conflitto”, dice, “può esserci con il pop italiano, almeno quello attuale”. I cantautori cantavano la realtà e c’è anche chi parla del neo realismo in musica: “Il centro storico è stato un vero e proprio set – ricorda Federico Sirianni – i personaggi che lo popolavano non li ho mai trovati in nessun’altra città”.

Cabona, che si è avvalso della consulenza storica di Laura Monferdini, mette a confronto i giovani Izi, Tedua, Bresh, Nader, Disme, Guesan, Vaz Tè, con Cristiano De André, Gino Paoli, Dori Ghezzi, Gianfranco Reverberi, Giampiero Alloisio, Ivano Fossati. Voci che si uniranno alla fine, sulle splendide musiche composte da Pivio e Aldo De Scalzi, per recitare “Litania”, la poesia con cui Giorgio Caproni disvela l’essenza e i colori della città: “Genova città intera/ geranio. Polveriera/ Genova di ferro e aria/ mia lavagna, arenaria”…

Nel faccia a faccia Cristiano De André con Bresh, Gino Paoli con Tedua, Dori Ghezzi con Izi si tocca con mano come i due mondi non siano poi così distanti. Tutti avvertono la responsabilità sociale di chi scrive musica e la necessità di comunicare le proprie emozioni. Cristiano e Bresh si raccontano a vicenda gli inizi, la voglia di suonare, la forza di superare le difficoltà e comunicare agli altri. Due mondi che si avvicinano e che c’è di meglio per due musicisti di suonare insieme? Sono nello storico negozio museo di Via del Campo dove è esposta la chitarra di Faber. Cristiano imbraccia l’Esteve e assieme a Bresh intonano Creuza de ma.

I rapper raccontano le periferie ma lo facevano anche i cantautori; la vita nei quartieri più bui è al centro delle loro storie. C’è chi da ragazzino abitava a Cogoleto e immaginava il centro di Genova come una piccola New York. Questo il racconto: “Il treno passava tra i palazzi della città, guardavo fuori dal finestrino, da una parte le abitazioni che davano sulla stazione e dall’altra il mare, celato dietro i colori accesi dei container. Cresci in fretta in certi quartieri perché devi evitare che ti mettano i piedi in testa ma diventi umile, comprendi e rispetti le persone che vivono ai margini”. La strada li unisce e sono diventati amici: Vaz Tè, Guesan, Tedua, Izi. Amici proprio come i cantautori genovesi: “Non c’era nessuna scuola”, ricorda Gianfranco Reverberi, figura centrale della musica italiana che ha lanciato Tenco, Jannacci, Paoli e Gaber, “il nostro divertimento era solo fare musica”.

La canzone d’autore è stata rivoluzionaria e ora questo ruolo tocca al rap, spiega Giampiero Alloisio. Le due forme musicali nascono come movimento anti borghese e tutte e due rappresentano il mutamento della società. “Se De André fosse vivo non sarebbe un rapper, continuerebbe a fare album sempre più evoluti e sarebbe primo in classifica”, dice Alloisio, “ma se De André avesse vent’anni forse sarebbe un rapper perché il linguaggio che ha adoperato era quello della sua generazione e oggi il modo di esprimersi è un altro”.  Anche Dori Ghezzi, a colloquio con Izi, guarda con attenzione al fermento rap: “Avete linguaggi diversi ma il sentimento è lo stesso. Credo che Fabrizio sarebbe il primo a capirvi”. Come nasce un brano rap? Prima la musica o il testo?  Dori Ghezzi afferma che le canzoni nascono quando meno te le aspetti, specchio dello stato d’animo di un momento. Izi sostiene che poche volte scrive prima il testo e accade solo quando il progetto prevede un particolare arrangiamento orchestrale. “Il rap mi ha aiutato ad abbattere ed esaltare il mio ego”, dice Tedua a Gino Paoli il quale ritiene che oggi personalmente sceglierebbe il rap ma a patto di farlo proprio, in modo originale. Quello che conta – dice Paoli dalla terrazza della sua splendida casa a Nervi– è la verità; non mi interessa l’intonazione di un cantante divido le persone tra vere e false. Ivano Fossati, cantautore e poeta, musicista che ha attraversato gli anni d’oro della discografia, non nasconde l’ammirazione per i rapper: “Sono cantautori e anche di più, hanno un coraggio particolare, pensieri altissimi collegati spesso a frasi di servizio. Frasi che potrebbero sembrare banali ma sono musica. C’è una libertà che loro si sono presi alla quale noi non abbiamo avuto il coraggio di accedere; per questo dobbiamo guardarli con attenzione”. Parlare di territori piccoli, del loro quartiere, delle loro strade e avere la capacità di vedere lontano è la caratteristica dei rapper ma da qui emerge il legame profondo con chi cantò addirittura una sola strada, Via del Campo, e un solo quartiere, la città vecchia, descrivendo il mondo dei dannati della terra, i disperati, i ladri, le puttane.  Fossati perdona i   rapper che navigano fuori dalla cultura musicale: “Credo che nel tempo possano creare una cultura diversa, è una delle loro forze, non hanno timori reverenziali”. Ma a Genova non tutto fila liscio, non ci sono solo balconi adornati con la pianta del basilico e i gerani. “È una città che ti comprime”, dice Alloisio, “c’è un atteggiamento borghese nei confronti degli artisti, se uno riesce a esprimersi qui poi avrà successo”.

Pubblicato su Extra Music Magazine, 10 maggio 2022

Osvaldo Di Dio, l'Einaudi della chitarra

di Alfredo Franchini

 

 

 

Paesaggi sonori, luoghi dell’anima, descritti attraverso un suono originale che mette in risalto la profondità e qualche volta la leggerezza.

È il nuovo CD di Osvaldo Di Dio che si chiama Separazioni e altro non è che lo specchio dell’ampio mondo musicale dell’autore-esecutore. Atmosfere aperte e circolari di una chitarra acustica – una Martin 000-28VS – che in alcuni brani si intreccia con un quartetto d’archi o con un violino e, nel multistrato sonoro, c’è anche spazio per l’elettronica. Con questo disco Osvaldo Di Dio, 41 anni, apre una nuova strada rispetto al suo ricco curriculum. Dopo il diploma al Conservatorio Verdi di Milano, con una tesi su Jimi Hendrix che gli fece conseguire il massimo dei voti, ha lavorato in studio a Londra e a Los Angeles con importanti produttori: su tutti Chris Kimsey, (Rolling Stones, Led Zeppelin, Pink Floyd). Poi – andiamo veloci – la partecipazione ad alcuni grandi tour con Cristiano De André per una decina d’anni, Franco Battiato e Alice nei concerti da cui è stato tratto il DVD live e nei quali esegue il famoso assolo della Cura. Ma la presenza sui palchi è una costante con tante altri artisti.

Due anni fa – come aveva registrato Extra Music Magazine – Osvaldo aveva inaugurato una nuova via diventando un cantautore perché la musica non conosce barriere: ci sono canzoni che nascono già con le parole e altre che parlano con le note.
“Con questo disco”, afferma Osvaldo Di Dio, “ho cercato la purezza del suono e l’autenticità. Solo mettendosi a nudo un artista ha la possibilità di creare una connessione con il pubblico. Questa è una delle tante cose che ho imparato da Franco Battiato, così come il coraggio di abbattere i confini tra mondi musicali soltanto apparentemente distanti come la classica e l’elettronica, legando il tutto grazie a una concezione di songwriting di derivazione pop”.

Torniamo a Separazioni, un titolo che forse potrebbe essere sostituito da crisi se si intende lo spartiacque del vecchio dal nuovo, l’aggravarsi di una situazione che però apre a nuove opportunità. Il titolo deriva da un brano che affonda nella psichedelia con echi dei Radiohead. Quegli echi che ritroviamo nella Guerra di Piero, arrangiata da Osvaldo per l’ultimo tour di Cristiano De André. Il disco si apre con Radici che ha un impatto di musica gitana unita alla purezza del suono e su questo dobbiamo fare una riflessione: Di Dio ha sviluppato un tocco e un approccio agli arrangiamenti che è assolutamente personale e riconoscibile, e si avvicina così al genio pianistico di Ludovico Einaudi. Atmosfere che ci riconducono a una sceneggiatura cinematografica, proprio come Einaudi che aveva incominciato – prima di introdurre l’elettronica – a raccontare la storia dei giorni in Africa, per poi descrivere le Onde e arrivare, infine, al concetto più complesso del divenire. Sono otto i brani del disco di Osvaldo e non manca un momento pop con Memories dove la chitarra acustica è protagonista insieme a un quartetto d’archi.

Due brani sono catalogabili – per quanto si possa fare in musica – come classici e sono Legni paralleli e A cuore aperto. Il primo è dedicato a Giuseppe Gibboni, ben noto ai lettori di Extra Music Magazine perché fu protagonista di un caso di cui scrivemmo nel novembre del 2021 quando la prima Viola della Scala, Danilo Rossi, denunciò che, mentre venivano celebrate le imprese sportive, l’Italia ignorava la vittoria di un giovane talento in un concorso internazionale. Era Gibboni; a lui e a Carlotta Dalia Osvaldo dedica un pezzo classico che affonda in qualche modo anche nella melodia della canzone napoletana: legni paralleli proprio come la chitarra e il violino. È una melodia antica, quasi una ninna nanna che chiude un giorno e aspetta l’arrivo dell’alba.

Infine, “A cuore aperto” dove la chitarra dialoga col violoncello e la leggerezza lascia il posto a un arpeggio ostinato. Osvaldo Di Dio spopola su Spotify con mezzo milioni di ascolti in un anno e mezzo, e padroneggia i social con le dirette su Twitch e Facebook ma forse ora è nato l’Einaudi della chitarra.

Separazioni

Radici/ Separazioni/ Memories/ Passioni/ Winter butterfly/ Reborn/ Legni Paralleli/ A cuore aperto

Link Spotify: https://spoti.fi/3CgrhpB

Pubblicato su Extra Music Magazine, 16 marzo 2022

 

 

Cantastorie, dai Gufi a Brassens

di Alfredo Franchini

 CHIEDI chi era Nanni Svampa, un autore, un cantante, un innovatore che ha preceduto Gaber nel teatro canzone, uno che ha tradotto l’opera omnia di Brassens in milanese e in italiano e che del grande maestro francese fu amico. A rendere merito a un gigante dello spettacolo è il libro “Il mondo di Nanni Svampa” di Michele Sancisi, appena pubblicato da Sagoma Editore. È il racconto di una vita fuori giri con le testimonianze di Paolo Rossi, Enrico De Angelis e Flavio Oreglio. Il libro ci restituisce Svampa artista ma per motivi ovvi non può ridarci l’umanità e l’ironia di Nanni. Per non dar dispiacere al padre – o forse perché non si sa mai nella vita – aveva studiato alla Bocconi e la laurea in Economia è venuta prima di quella in Goliardia, decisiva per la sua carriera. Nanni diede vita al cabaret, quello vero, dissacrante e surreale, così distante da quello odierno succube dei ritmi televisivi, privo del rapporto con il pubblico, contingentato nei minuti tra una pubblicità e l’altra.

A Milano Svampa c’era arrivato nel dopoguerra, lasciata la campagna e il lago Maggiore che sa essere così malinconico - diceva - che arrivati alla sera o ti butti in acqua o ti metti a ridere. Fatto strano, proprio dal lago e dalla stessa provincia sono arrivati a Milano i comici dall’humor folle come Cochi e Renato, Franceso Salvi, Enzo Iacchetti e il Nobel Dario Fo. Nasceva allora la canzone alternativa, contraltare del boom economico dei primi anni Sessanta: capitava che di giorno si celebrasse il trionfo della Borsa e di notte al Derby si cantassero gli sballati, i ladri, i barboni. Nanni non amava la nostalgia ma coltivava i ricordi e così era capace di trattenerti delle ore a descrivere i mestieri che si sono persi sotto l’ombra della Madonnina in una città che stava cambiando velocemente. Nei nebbioni di Milano anni Sessanta, anche se non vedevi a due metri, ti sentivi protetto, il mondo era ovattato e ne potevi approfittare per condurre la tua ragazza in un androne o contro un albero per limonare.

A dare linfa agli spettacoli e alle canzoni giocarono un ruolo decisivo le vecchie osterie, frequentate sino alla fine degli anni Settanta. Notti bianche e in quelle ore nascevano canti e improvvisazioni in una osmosi perfetta tra cabaret e vita reale. I protagonisti di quelle notti rivivevano nelle canzoni come in quelle più conosciute di Gaber e Jannacci affollate di personaggi strambi e da chi portava le scarpe da tennis in un’epoca in cui quel tipo di calzature era riservato solo a chi praticava lo sport. Storie vere o inventate come chi si costruiva da zero la propria vita.
Presa la laurea e assolti gli obblighi di leva, Svampa esordisce in teatro ma il padre lo aspetta sveglio alle tre di notte: “Ti ho fatto studiare vent’anni per farti andare a puttane tutte le sere”? gli chiede dando implicitamente una strada definizione del cabaret. La svolta viene coi Gufi: sono quattro ragazzi che si presentano sull’unica rete Rai, vestiti di nero a cantare canzoni macabre e fare gag dissacranti e irriverenti. I Gufi passano in breve tempo dai piccoli spettacoli alle importanti tournée teatrali con un grande successo di pubblico e di dischi venduti. Manco a dirlo in televisione passano un guaio perché una loro canzone, “Non credere che sia l’abito”, sposa l’obiezione di coscienza che allora era un reato e si finiva in carcere.

Per capirci - ed eravamo già nel 1968 - i ragazzi che avevano chiesto di poter prestare servizio civile a favore dei terremotati del Belice, ricevettero in cambio una denuncia cui seguì l’arresto. Esaurita, come capita ai gruppi, l’esperienza comune, Svampa incontra a Parigi il maestro a cui doveva l’ispirazione per il suo repertorio, Brassens. A differenza di Fabrizio De André che non volle mai incontralo per il timore di rovinare un mito in quanto si diceva che Brassens avesse un brutto carattere, Svampa diventa amico dello chansonnier-filosofo. “Ci incontrammo a casa sua in una villetta a schiera nella periferia di Parigi”, ricordava Svampa, “aveva uno studio nel seminterrato e un salotto senza un quadro dove se ne stava una gatta strabica”. Prima vennero le traduzioni del mondo Brassens in milanese, un dialetto che grazie alle parole tronche derivanti dal francese, si prestava alla scrittura in milanese. Nel 1990 Svampa pubblica un libro per l’editrice Muzzio e resta ancora l’unico volume che riporta tutte le canzoni di Brassens tradotte in italiano. 

 Qualche anno dopo uscirà un doppio CD intitolato “Donne, gorilla, fantasmi e lillà”, omaggio italiano a Brassens: 25 canzoni, comprese tre versioni di Fabrizio De André. Il produttore del disco è Roy Tallant, il musicista che convinse Svampa a cambiare etichetta e lasciare la gloriosa Durium, una delle più importanti case discografiche, dopo tanti anni e mille dischi. Tra l’altro la Durium fu la prima in Italia a realizzare le collane di musica folk con la Milanese, la Napoletana del gigantesco Roberto Murolo e la Romana. In quartetto coi Gufi, in trio con l’attrice Francesca Mazzola e in duo con il grande jazzista Lino Patruno. Nanni Svampa va in scena e con qualsiasi formazione catalizza lo spettacolo su di sé, cercando sempre di rappresentare il proprio tempo con ironia e distacco. Chi sono gli eredi di Svampa? Il libro di Michele Sancisi indica su tutti Elio delle Storie tese e Paolo Rossi, autore “della prefazione. “Ci sono quelli che dicono ma perché non fate le canzoni come una volta”, si è chiesto Svampa, “ma io ho cantato la periferia quando Lambrate era periferia, adesso la periferia è l’hinterland e quello lo cantano i rapper. È cambiato il mondo. Non pretendo niente. Faccio il testimone di un patrimonio che voglio che resti ai giovani e non solo… come il latino, come la letteratura francese”. E allora chi si chiede chi fosse Nanni Svampa vada a cercare video e dischi: benvenuto in Svampalandia.


Pubblicato su Extra Music Magazine, 7 marzo 2022