EXTRA MUSIC MAGAZINE

Morricone, la musica epica al cinema

di Alfredo Franchini

 

 LA musica va al cinema e approda alla Mostra di Venezia con una serie di documentari sulle star, da Morricone ai Led Zeppelin, da Cohen a De André, da Ezio Bosso alla Vanoni. Visti in anteprima nelle sale del Lido, i docufilm musicali saranno nei cinema a partire dal prossimo ottobre. Se una macchina organizzativa come quella di Venezia ha messo questo genere di film al centro dell’attenzione cinematografica c’è un motivo: i documentari stanno appassionando sempre di più lo spettatore grazie a una narrazione del reale in stile cinematografico. E poi, in qualche modo, rappresentano una risposta alle tante fiction sui miti della musica che non sempre hanno convinto perché – diciamolo – è difficile scrivere una sceneggiatura esauriente sulla vita di personalità complesse. Giorgio Verdelli, il regista del docufilm su Ezio Bosso offre un’altra spiegazione: “Non ci sono più i grandi miti e si sente il bisogno di riviverli”.

Extra Music Magazine, dopo De André#De André, Storia di un impiegato, continua a raccontare i docufilm che vedremo in questo autunno, a cominciare da Ennio di Giuseppe Tornatore. Due ore e tre quarti volano troppo veloci alla scoperta di un autentico maestro: Ennio Morricone, autore della colonna sonora della nostra vita con memorabili composizioni per il cinema, (ne ha realizzate più di 500), di opere sacre ma anche di moltissime canzoni di successo, quando la musica andava a 45 giri. Suoi gli arrangiamenti di Sapore di sale, Abbronzatissima, Se telefonando e altri successi.

Alla presentazione al Lido, in prima fila, ci sono la moglie di Morricone, Maria, e i figli Flavia, Marco e Giovanni. Sullo schermo, durante la lunga intervista concessa al regista di Nuovo Cinema Paradiso, apparirà a tratti un Ennio anche emozionato nel ricordare l’austerità della sua gioventù.  Era un uomo semplice, Ennio - racconta uno dei produttori Gabriele Costa - e in genere si irrigidiva durante le interviste. I rappresentanti della vasta coproduzione, (Italia-Belgio-Cina-Giappone), andarono a proporre il progetto al maestro che inizialmente rimase impassibile. Poi Ennio, senza dir nulla, si alzò e sparì in un’altra parte dell’abitazione per uscirne qualche minuto dopo e accettare la proposta.  Cosa era successo? “In quei pochi minuti aveva telefonato a Tornatore dicendogli: “Peppuccio, do il via libera al film solo se lo fai tu”.

L’inizio del film è sorprendente: vediamo Morricone nella sua casa di Roma mentre fa ginnastica, poi i movimenti delle braccia si sovrappongono, solleva una mano come a muovere un’immaginaria bacchetta, la scena cambia ancora ed eccolo sul podio a dirigere la sua orchestra.  “Tutti sanno che Ennio dedicava le prime ore del mattino all’esercizio fisico”, spiega Giuseppe Tornatore, “ma io ho sempre pensato che in questa sua pratica non ci fosse solo il desiderio di tenere in forma il proprio corpo. No, era l’espressione rigorosa della sua vita. Esercizi continui per allenare se stesso, per affrontare con lo stesso rigore la sua unica ed eterna passione, la musica”. Le riprese della ginnastica furono fatte perché l’amico Peppuccio convinse Ennio facendogli leggere il soggetto. Il documentario si basa anche sulle testimonianze di artisti e registi, tra i quali Bertolucci, Montaldo, Bellocchio, Argento, i fratelli Taviani, Verdone, Barry Levinson, Roland Joffè, Oliver Stone, Quentin Tarantino, Bruce Springsteen, Nicola Piovani, Hans Zimmer e Pat Metheny. Il resto lo fa il montaggio di Massimo Quaglia e Annalisa Schillaci e il materiale inedito di cui si è servito il regista ma tutto ruota – vero filo conduttore – sulla musica. Come si fa a non perdersi nel racconto di una vita come quella di Morricone? Tornatore realizza una sorta di romanzo audiovisivo e, a differenza di molti documentari in cui nessun regista sceglierebbe di seguire una linea cronologica col serio pericolo di infilare la storia dentro a una gabbia, in questo caso domina la cronologia. Così il lavoro diventa un punto fermo per chi vuole conoscere meglio il maestro e anche per chi volesse proseguire gli studi delle sue opere.

A un certo punto del film sentirete Morricone fare un’affermazione degna di approfondimento: “Le note non sono più importanti conta quel che il compositore le fa diventare”. Ciò che diede la gloria a Morricone, vincitore di due Oscar, era per lui anche un cruccio. Scrivere per il cinema significava in qualche caso piegare il pentagramma al servizio delle immagini ma Ennio scelse di non rinunciare mai alla propria personalità. “Il regista non deve sapere”, disse, “se ho composto un pezzo su tre note o sette o se l’armonia si svolge su tre suoni. Il risultato finale è servire il film ma la musica deve avere dentro qualcosa che la riscatti a se stessa”. E allora possiamo capire meglio il suo modo di pensare il cinema, la scrittura epica, l’impressionismo dei suoni, il famoso fischio, i rumori che rendono indimenticabili le pellicole. Sono famose le colonne sonore dei western con quella che venne definita la trilogia del dollaro: nel 1964 esce “Per un pugno di dollari” e nel triennio successivo “Per qualche dollaro in più” e, forse il più importante, “Il buono, il brutto, il cattivo” che cambia gli orizzonti della musica italiana. Una rivoluzione: da una parte l’arricchimento della componente timbrica con segnali sonori non previsti dall’orchestrazione tradizionale, entrano nella partitura la frusta, la campana, l’incudine; dall’altra parte il contrappunto, un dialogo tra le diverse sezioni di strumenti. Ennio non voleva essere identificato per gli spaghetti western, eppure quel fischio che caratterizza “Per un pugno di dollari” finità addirittura primo nella classifica dei 45 giri più venduti, segnando un’epoca con grande stupore persino della RCA italiana che allora era la più importante filiale europea dell’azienda americana. E di quella casa discografica, costruita dagli americani nel dopo guerra in un posto improbabile sulla Tiburtina per dare un contributo alla rinascita di Roma, Ennio sarebbe diventato una garanzia di successo. Come arrangiatore, tra l’altro, contribuì alla nascita della “trilogia del te” quando Gianni Morandi cantava Non son degno di te, Se non avessi più te e In ginocchio da te, brani che diedero vita a un altro genere di film non proprio memorabili, chiamati “musicarelli”. Questo per dire – come spiega Tornatore - che nessuno riuscirà mai a compilare l’opera omnia di Ennio: “Si sono persi troppi lavori e soprattutto quelli dell’inizio. Sono sparite tante composizioni destinate a trasmissioni radiofoniche degli anni Cinquanta e Sessanta perché lui consegnava gli originali e non teneva alcuna copia. Tra l’altro non si trova più nemmeno lo scritto elaborato per l’esame di composizione, e questo perché i Conservatori buttano via tutto ogni dieci anni”.

È un film delle scoperte. Dalle piccole scene di vita quotidiana, ad esempio la passione per gli scacchi, alla devozione che per Ennio avevano tanti gruppi rock e l’affetto di Bruce Springsteen, il quale gli dedicò diversi concerti in Italia. Il boss ricorda: “Quando vidi il Buono, il brutto, il cattivo ebbi come un’illuminazione e appena uscii dal cinema corsi a comprare la colonna sonora”. Il verso del coyote, il fischio, un marchio di fabbrica dell’impressionismo musicale di Morricone.

Una vita per niente facile. Ennio era nato povero e il padre, suonatore di banda, portava il bambino con sé mostrandogli la fatica di guadagnarsi da vivere con la musica. Ennio studia la tromba al Conservatorio e poi composizione; come tutti i grandi è curioso, vuole sperimentare e innovare perché la tradizione dev’essere studiata a fondo per poterla trasformare. Diverse intuizioni musicali giungono dalla vita quotidiana. A Roma assiste a una manifestazione sindacale e ascolta gli operai percuotere i fusti di metallo: è da lì che nasce il tema musicale di “Sostiene Pereira”.

Tornatore ha ragione: nonostante la meticolosità nel reperire i materiali e la capacità di mettere ordine alla cronologia, da Mission alla ballata di Sacco e Vanzetti, a Uccellini e uccellacci di Pasolini, (con l’unico esempio dei titoli del film non scritti ma cantati, in quel caso da Domenico Modugno), una vita come quella di Morricone lascia aperta la porta a nuovi approfondimenti. “Sapete qual è il problema”? conclude Tornatore, “lui non è mai stato convinto dalla sua grandezza. Serio e rigoroso in tutto quel che scriveva, non nascondeva mai le proprie emozioni. E negli ultimi anni, il rivangare delle stagioni, hanno rappresentato momenti di grande sofferenza. In realtà non perché ci siano stati grandi eventi negativi ma proprio per quel suo modo di rapportarsi alla musica, una musica profonda che poteva essere non compresa a fondo”. E allora si capisce la commozione di Ennio nel ricordare con l’amico Peppuccio la strada percorsa dal Conservatorio per raggiungere la casa del suo maestro di composizione. La memoria corre alle prime composizioni: erano tutte scene di caccia. Piccoli quadri musicali dove dominavano gli squilli dei Corni. Chissà forse è da lì che è venuta l’ispirazione per gli spaghetti western, i film di Sergio Leone a tre dimensioni: quello che si vede, ciò che si ascolta e la musica che da sola ci svela il significato di tutto.

Pubblicato su Extra Music Mgazine, 23 settembre 2021

Il docu De André alla Mostra del Cinema di Venezia

 di Alfredo Franchini

Quanto tempo serve per percorrere il tappeto rosso alla Mostra del cinema di Venezia? Pochi minuti per i fotografi e un’eternità per Cristiano De André che, seguendo il percorso verso la Sala Darsena, mette ordine ai ricordi della sua vita. Il film “De André#De André” arriva al cinema dopo il tour sull’opera rock Storia di un impiegato; è il culmine di una carriera che, nonostante il cognome inesorabile e un diploma in violino al Paganini di Genova, s’è iniziata con le feste di piazze, una gavetta che ti fa crescere, altro che gli odierni talent. Cristiano ripensa a quei giorni, accade nel momento del trionfo con un film che dal 25 al 27 ottobre sarà proiettato in 320 sale cinematografiche. Ha inciso dischi importanti come Scaramante o Come in cielo così in guerra, un suo pezzo è stato ripreso e cofirmato da David Byrne, ma ora affiorano i ricordi di quelle feste in piazza, delle sue prime canzoni importanti eseguite sullo stesso palco dove Mietta raccoglieva gli applausi per il “trottolino amoroso”.  Dunque, De André hashtag De André, un simbolo dei nostri tempi che aggrega tematiche e persone. La sceneggiatura si può leggere come una serie di metafore in grado di traghettarci dalle istanze sociali degli anni Settanta a una rivoluzione personale; accade miracolosamente quando la sfera privata si unisce a quella sociale e la poesia si sposa alla politica. Cristiano presenta il docufilm a Venezia assieme a Dori Ghezzi e a Roberta Lena che aveva curato la regia del tour nei teatri e all’Arena di Verona, tramutando il concerto in uno spettacolo “multimediale” perché dietro la grande band di Cristiano scorrevano le immagini delle manifestazioni degli anni di piombo. Allora si scendeva in piazza per rivendicare un nuovo diritto di famiglia, per l’aborto, l’abolizione dei manicomi, per il sogno di un mondo senza disuguaglianze e intanto si alzava il fuoco del terrorismo e l’Italia conosceva lo strazio delle stragi di Stato. Sembrava che tutto dovesse cambiare ma forse il frutto più vistoso è stata la secolarizzazione dei costumi.

Tutto questo è documentato nel film di Roberta Lena, la regista torinese autrice del bel libro “Dove sei? la storia autobiografica di una madre la cui figlia decide, da un giorno all’altro, di partire per la Siria e andare a combattere l’Isis. Ma non è tutto. Con grande sensibilità artistica, Roberta Lena innesta sulle canzoni di Storia di un impiegato le vicende umane di Cristiano, il suo rapporto con un padre-mito, il desiderio di un’infanzia risolto con un bicchiere tra le mani.

A parte le immagini delle canzoni, un potente mix di elettronica e strumentistica acustica tratte dalle registrazioni fatte nel Teatro degli Arcimboldi di Milano, la scena del film diventa Portobello di Gallura, un luogo importante per Fabrizio ma di cui, a torto, si parla poco. È la casa che nel 1968 Faber cominciò a costruire con la moglie Enrichetta detta Puny. L’abitazione era arroccata più in alto di tutte le altre e Faber la battezzò il Nido dell’aquila. La dimora precedette, dunque, la scelta dell’Agnata e in quel Nido si ritrovarono molti miti del cinema italiano: Tognazzi, Marco Ferreri, Elio Petri, Walter Chiari e Paolo Villaggio. Tanti cervelli insieme che si nutrivano di uno spirito anarchico. È lì che una notte d’estate Ferreri ebbe l’idea della Grande abbuffata: “Tognazzi era un grande cuoco”, racconta Cristiano, “e dopo aver preparato una cena sontuosa portò in tavola una bellissima torta. Peccato che la forma fosse quella di due tette perfette” … La fotografia rende merito a un bagnasciuga del Nord Sardegna dalla cui acque limpide Fabrizio scorse un giorno una vacca che torceva il collo con un dentice in bocca. Nella casa abitata oggi da Cristiano è rimasto una sorta di soppalco, un piccolo proscenio su cui Ferreri, Tognazzi e tutta la combriccola si impose un limite di un quarto d’ora a testa per provare qualche gag. E così Villaggio, tra un belin e l’altro, inventò la scena delle polpette ingurgitate di fronte al severo dietologo tedesco: “Tu mangia! Infermieri venite”! Ugo Tognazzi fece le prove della Supercazzola, termine ormai riconosciuto anche dalla Treccani. Fu a Portobello che per la prima volta venne Francesco De Gregori per tradurre una canzone del futuro premio Nobel Bob Dylan con Cristiano, bambino, che gli chiese: “Perché Alice guarda i gatti”?

Storia di un impiegato fu scritta in parte in quell’angolo di paradiso e in parte a Genova in Corso Italia dove Fabrizio viveva con Puny e con Cristiano. In un’altra notte che volgeva all’alba, Faber svegliò Puny: “Vieni di là, ho scritto una canzone, voglio fartela sentire”. Era “Verranno a chiederti del nostro amore”. Cristiano - allora aveva dieci anni - sbircia i genitori dallo spioncino della porta del salotto: il padre canta e arpeggia sulla chitarra, la mamma ha due lacrime che scivolano sulle guance; nella dinamica del disco è l’estremo addio alla persona amata. Fabrizio scrisse quei versi mentre stava attraversando una grave crisi personale, innamorato di una ragazza di nome Roberta a cui avrebbe poi dedicato Giugno ’73 che si conclude con la fatidica frase: “È stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati”. Storia di un impiegato, pubblicato nel 1973, venne criticato da destra e da sinistra; era un lavoro profondamente anarchico e voleva dimostrare che non ci sono poteri buoni. “Sarebbe stato capito anno dopo anno”, assicura Dori Ghezzi. Si racconta di un impiegato di trent’anni che avverte l’urgenza di potere per staccarsi da una vita anonima e si trasforma in un bombarolo ma così facendo fa solo il gioco del potere. Anzi la bomba è eterodiretta e gradita dal giudice che lo ringrazia per aver eliminato i “soci vitalizi del potere” che non servono più a vantaggio di altri fedelissimi. Gli arrangiamenti di Cristiano De André e Stefano Melone sono stati calibrati proprio sulle tappe psicologiche del protagonista della storia. “Abbiamo cercato un suono che fosse un prolungamento di quello scelto all’epoca da Nicola Piovani”, spiega Cristiano, “l’idea era di riportare la tensione di allora a quella di adesso anche grazie a nuove sonorità. Abbiamo giocato col rock, con la musica popolare, con l’elettronica unendo tutti i brani con delle suite strumentali. Mio padre ha scritto senza seguire mai le mode e così le sue opere sono e saranno sempre attuali”. Ed è su questo che Roberta Lena ha puntato: “In Storia di un impiegato ci sono parole che, attraverso la poesia, ci riportano a un conflitto sociale, al bisogno della società di rigenerarsi con istanze dal basso. Quel disco è un sunto di quanto siamo costretti a vedere oggi ma una rivoluzione sociale non può esistere senza una rivoluzione personale. Su questo ho costruito la narrazione”. Dori Ghezzi ricorda una frase scritta in un appunto da Fabrizio: “A un tratto l’amore scoppiò dappertutto”, adoperato quasi come slogan dalla Fondazione. “Quelle parole sono il suo testamento”, dice Dori Ghezzi, “sin quando la gente non imparerà a dialogare, a capirsi, a riconoscersi, i problemi saranno sempre gli stessi. Questo film è a tratti anche duro ma mi auguro che dia a tutti un po’ di speranza”. Il pubblico applaude, Cristiano si stringe ai figli Alice e Filippo. Poi saluta gli spettatori con un set di canzoni: Fiume Sand Creek, Don Raffaè, Creuza de ma, Disamistade, La canzone del maggio, in duo con il chitarrista Osvaldo Di Dio. Due chitarre che riescono a farti sentire anche gli strumenti che non ci sono. Un piccolo concerto per far risuonare le parole di Fabrizio, dalla parte delle minoranze oppresse, dei servi disobbedienti alle leggi del brano, di chi cammina in direzione ostinata e contraria per consegnare alla morte una goccia di splendore. Negli ultimi anni Fabrizio si era un po’ incupito. “Mi disse: ho scritto contro la guerra e per chi non ha voce”, ricorda Cristiano”, ma non è servito, non è cambiato niente. Sono deluso. Ecco, oggi se solo potessi gli direi che ha sbagliato: noi siamo qui a parlare di lui e tanti ragazzini si avvicinano alle sue opere”.

Pubblicato su Extra Music Magazine, 16 settembre 2021

Cesare Picco, la filosofia della musica

Quelli di Cesare Picco non sono concerti ma gesti di libertà. Un pianista che naviga tra classica, jazz e avanguardia potrebbe cercare l’applauso facile con un’esecuzione perfetta di un preludio di Chopin o, passando al mondo del jazz, con un pezzo di Bill Evans. No, Cesare Picco è un “improvvisatore” che, giorno dopo giorno, si misura con il pubblico e proprio durante il concerto fa nascere la sua musica. Ha studiato composizione e ha collaborato con grandi artisti sia del mondo classico, (tra gli altri Giovanni Sollima, Carlo Boccadoro), sia della musica pop, (Ligabue, Bocelli, Giorgia). Ha composto colonne sonore per il teatro e ha scritto le musiche di diversi balletti portati sul palco della Scala. Ma evidentemente non gli basta: prima ha sperimentato i concerti immersi nel buio totale e un mese fa, per il festival Piano City Milano, ha tenuto i concerti all’alba con le note del piano ad accompagnare il sorgere del sole. In questa intervista esclusiva per Extra Music Magazine Cesare Picco spiega la filosofia della sua musica.

_ Pianista, compositore, clavicordista ma soprattutto improvvisatore che unisce tradizione e sperimentazione. Che cosa significa improvvisare? Un musicista deve pur sempre rispondere al pentagramma.

 “Da sempre chiunque senta parlare di improvvisazione pensa al jazz. Chiariamo che la musica è un linguaggio e come tale ha una sua grammatica e se tu vuoi parlare una lingua devi conoscere le regole. La forza del jazz è proprio l’improvvisazione che in questo caso si svolge dentro a uno schema, cioè le regole di quella lingua. Io ho studiato jazz e l’ho praticato per anni ma non sono un jazzista. Il discorso che faccio io è molto diverso: è il gesto ultimo della creazione in tempo reale di suoni di un linguaggio di una lingua mia. Io uso più grammatiche insieme. Mi interessa maggiormente la storia delle tante musiche del mondo e non solo quelle occidentali”.

_ Quindi il pianoforte è il tuo veicolo di espressione?

 “Mi piace far nascere la musica davanti al pubblico, in un determinato momento, con il mio piano, con quella data acustica. Il pianista dev’essere pronto a cogliere coi sensi tutto quello che si avverte durante il concerto. In quel modo crei un nuovo linguaggio”.

_ Quindi è questo il motivo per il quale hai creato i concerti al buio? Mi è capitato durante i concerti di stare sul palco dietro ai musicisti e mi ha sempre impressionato vedere da lì il pubblico in platea quindi dev’essere una sensazione strana suonare senza vedere niente.  Peraltro, la stessa meraviglia l’avranno manifestata i tuoi spettatori.

 “La mia avventura è iniziata quando mi sono detto: sei un improvvisatore e non devi fare il circo eseguendo il preludio di Chopin a tamburo battente. Intuivo che dovevo sparigliare le carte e togliendo il senso della vista avrei acquistato un senso più potente amplificando le sensazioni. Suonare al buio è come avere dentro un amplificatore analogico, valvolare, di quelli antichi che ti permette di avvertire i suoni che arrivano da lontano”.

_ È un momento importante per l’orecchio del musicista ma il pubblico come la prende?

 “La forza di questo esperimento è che il pubblico vive contemporaneamente quel momento e diventa così un’esperienza da fare insieme. Ti dico che dopo un quarto d’ora, avverto nitidamente di stare a suonare con mille persone tutti assieme, una vera botta di energia”.

_ Ci sono stati due diverse fasi: inizialmente hai tenuto i concerti per piano solo e poi coi musicisti sul palco, tutti al buio. Quali sono le differenze?

 “Anche questo è stato un bel percorso. Se non riesci a vedere gli altri musicisti scatta un altro livello di sensorialità. Come stare su una navicella spaziale in una nuova dimensione. Sono impegnato da più di dieci anni in una battaglia per la conoscenza del buio. Non solo come concetto fisico ma metafisico”.

 _ Fabrizio De André, quando andò a vivere in campagna rimase per sei mesi senza luce con un generatore di corrente che si esauriva all’imbrunire. Disse che quell’esperienza gli aveva fatto capire due cose: primo che tutti noi abbiamo dei bisogni indotti e poi che l’orecchio del musicista, nel silenzio della notte, poteva cogliere suoni particolari.

 “Condivido in pieno il giudizio. Non solo abbiamo bisogni indotti ma anche i nostri sensi sono influenzati dall’esterno. Siamo abitudinari e per riuscire a metterci alla prova dobbiamo mandare tutto all’aria”.

_ Sparigliare le carte con quale scopo?

 “Per me significa avere la capacità di giocare coi propri sensi per vedere il mondo in una maniera nuova”.

_ Dopo i concerti al buio il mese scorso hai proposto quelli all’alba. Cinquecento persone hanno invaso l’Ippodromo di San Siro alle 5 del mattino. Dal tramonto alla luce, che significa?

 “In questo momento, dopo il lockdown, le persone hanno bisogno di vivere qualcosa di molto forte anche sul piano sensoriale. Da musicista riconosco il potere del suono, parlo di suono, la musica è un’altra cosa. È la forma più potente di comunicazione tra esseri umani e creato; noi siamo vibrazioni e il potere di queste onde è fondamentale. Se cinquecento persone hanno deciso di alzarsi alle tre e mezzo per venire a sentirmi significa che scientemente avevano deciso di condividere un’esperienza in comune”. Al buio mi permetto di fare cose non facili perché voglio provare a scuotere l’ascolto con suoni alternativi. All’alba non faccio un pezzo dietro l’altro, avverto il bisogno di un suono che nasca dal profondo per accompagnare il sorgere del sole”.

_ La musica può creare una coscienza sociale?

 “Tutti i musicisti hanno un ruolo fondamentale, anzi direi tutti gli artisti che in questo momento possono e devono far la differenza. Non si può continuare a parlare tutti i giorni di economia e finanza: possiamo anche riuscire a pagare i debiti ma se abbiamo da curare le ferite della mente e dello spirito non basterà. È il nostro un ruolo importante soprattutto in un paese che considera gli artisti come dei giullari”.

_ Ad Asciano hai realizzato un Festival del suono e credo che sia la prima manifestazione del genere in Italia. Prendi in esame il suono in tutte le sue declinazioni ma noi siamo circondati da suoni standardizzati che non sappiamo decifrare. Tra l’altro, se vogliamo dirla tutta, anche una chitarra acustica amplificata in uno stadio non ha più un suono naturale.

 “Senza andare troppo indietro, diciamo da un secolo dall’arrivo della riproduzione sonora, il senso dell’udito è cambiato con una velocità esponenziale. Se prendiamo un’icona come Woodstock, quell’impianto suonava un quarto di quello di una discoteca di oggi. E pensa che cosa hanno sentito, o meglio non hanno sentito, le centinaia di migliaia di persone che stavano a due chilometri di distanza. Nel mondo della musica classica sino a cento anni fa si ascoltava – e adesso accade ancora nei teatri – in acustico ma la differenza sta nell’orecchio che prima era abituato ad ascoltare i timbri, gli strumenti e le sfumature. La nostra musica occidentale per tre secoli ha vissuto di sfumature che i musicisti creavano e che il pubblico sapeva riconoscere. Ora è cambiata la tipologia di ascolto. Si tratta di rieducare il pubblico all’ascolto”.

_ I grandi musicisti non sono semplicemente dei virtuosi del proprio strumento ma devono essere innovatori?

 “È vero ma personalmente non mi interessa che mi vengano a elogiare perché una musica è bella; mi interessa l’emozione, che la musichi ti tocchi dentro, che ti arrivi”.

_ E allora dimmi cosa è la cattiva musica: quella impura, di routine, disonesta perché fatta di formule a tavolino?

 “Potrei risponderti quella che ha suoni brutti, ignoranti, fatta da persone che potrebbero fare altre cose molto meglio. La differenza sta nelle persone che devono credere in quello che fanno, nelle loro intenzioni. Sono un anti-virtuoso per eccellenza, magari mi interessa fare con una nota quello che altri fanno con cento note”.

_ Uno dei parametri fondamentali della musica è il tempo. E le regole, penso alle scale, ci dicono che la musica è matematica.

 “Sino a un certo punto. O meglio è vero ma poi nella musica c’è qualcosa che non riusciamo a decifrare. Il ritmo lo inserisci nella giusta pratica, puoi anche fare un’equazione, ma ci sarà sempre un dieci per cento di indefinito che rende magico un brano. Se fosse matematica saremmo tutti geni”.

_ Il 21 luglio a Milano ci sarà una prima assoluta con Roberto Cotroneo, un intellettuale autore di tanti saggi e romanzi. Un nuovo esperimento?

 “E’ da tanti anni che volevamo fare qualcosa insieme. Cotroneo, oltre a essere giornalista e scrittore, è anche un pianista, un fotografo, e un grande appassionato di musica. Credo che viaggeremo tra i nostri amori musicali”.

_ Mi fa pensare che la tua curiosità non sia solo musicale e che anche questa sia un’occasione per superare ogni limite di stile.

 “Certo il confronto e gli scambi con altri generi di arti è fondamentale. Facciamo uno dei mestieri più straordinari del mondo ma se non si è curiosi non si va da nessuna parte”.

Cesare Picco ci saluta e sale sul palco. Che farà stasera? L’unica cosa certa è che sarà un’esperienza unica: «Sono un pianista seduto a ovest con le mani a est”, dice, “e guardo la stella polare annusando i profumi del Sud».

Pubblicato su Extra Music Magazine, 13 luglio 2021

 

 

L'era del cigno bianco

di Alfredo Franchini

Sole, mare, vento, i campi di fave, gli ulivi secolari, le cicale. E a interrompere questo idillio bucolico le ciminiere dell’Ilva che ammorbano il quartiere Tamburi di Taranto. Sono i racconti musicali che i Salento All Stars ci propongono con l’ultimo album, “L’era del cigno bianco”, prodotto da Gate 19 con il sostegno di Puglia Sounds. Il titolo è un evidente richiamo al disco di Franco Battiato ma fu concepito da Davide Apollonio durante il lockdown, quindi prima della scomparsa dell’autore della Cura. “Quando le sirene delle autombulanze finiranno di suonare e per le strade ci si potrà riabbracciare”, canta Apollonio, fondatore del gruppo, “l’era del cigno bianco ritornerà”. L’immagine è messa in contrapposizione alla pandemia, rappresentata dalla nascita del cigno nero, un evento raro ma possibile.

In questo nuovo lavoro, la band made in Salento che parte dalla tradizione musicale per arrivare a costruire un suono proprio, si apre a diverse collaborazioni: Erica Mou, Michele Riondino & Revolving Bridge, O’ Zulu dei 99 Posse, Papa Ricky, Cristiana Verardo, Magnitudo 12. Lo zoccolo duro della band è formato da Apollonio con Alfredo Quaranta, Peppe Levanto, Ylenia Giaffreda, Marco Giaffreda e Manuel Fontana.

Diciamo sùbito che la Puglia non è la California ma ha una produttività musicale davvero importante e più avanti cercheremo di capire qual è il fattore che agevola tanti artisti dai Negramaro a Caparezza, da Carolina Bubbico a Diodato: sarà determinante solo lu sule, lu mare, lu jentu?

Il disco si apre con una voce amplificata dal megafono per denunciare “la politica di un governo che preferisce bruciare denaro pubblico negli altiforni di un’azienda a pezzi invece di investirli su un territorio dalle mille potenzialità”. Qui non si passa: l’invocazione dei salentini che cantano su un tappeto di chitarre e fisarmonica, invocando il ritorno a un mondo del lavoro fatto di diritti, primo tra tutti quello della salute. Una denuncia contro l’Ilva e le multinazionali che stanno inquinando un angolo di paradiso che poteva essere la California d’Italia. Ma la Puglia è anche il mare, diventato ormai un enorme cimitero, riassunto nell’album dal pezzo intitolato “Centosettanta”: è il racconto di un gommone colato a picco nell’arco di poche ore. Sono 170 i morti, 170 chiodi che trapassano la nostra coscienza. Sia lieve l’acqua, cantano i Salento All Stars. Ma è anche la denuncia di un Paese come il nostro dove crescono il rancore e il risentimento. Un paese diventato più piccolo, più vecchio, con un eccesso di concentrazione di poteri economici e politici. La denuncia di Davide Apollonio e Peppe Levanto che hanno curato la produzione artistica, si trasforma in una preghiera laica affinché il mare possa far ritrovare un po’ di umanità. Nelle dieci tracce dell’album cambiano le atmosfere musicali con vari stili dietro alle canzoni. Non ci sono formule precise, si va dalle melodie più romantiche che toccano direttamente chi ascolta anche in maniera un po’ alchemica, al rock e al pop. Si fondono linguaggi diversi ma resta un connubio tra melodia e armonia e i suoni caldi, come in “Navigare a vista”, cui prende parte Cristiana Verardo, vincitrice del premio Bianca D’Aponte destinata alle cantautrici, con il pianoforte Rhodes che si sposa allo sciabordio delle onde. Due canzoni dell’album, “Rolling” e “Nice day” stridono con gli altri otto brani perché sono stati composti per la colonna sonora del film “Cobra non è” di Mario Russo, il regista salentino che ha diretto anche i videoclip di Elodie, Rovazzi, J-Az e Fedez. Rolling, cantata da Alfredo Quaranta, racconta dell’incapacità di adattarsi alla vita quotidiana e Nice day si basa su un monologo di Cesare Maniglio, un’ode semiseria per chi spera in una vita diversa. I Salento All Stars prendono di petto anche il tema dell’emigrazione e dell’intolleranza di chi ha dimenticato che una volta “gli albanesi eravamo noi” e lo fanno assieme a O’Zulù dei 99 Posse, un nome storico della scena indipendente in Italia. Tutto con sonorità elettriche incastonate in una scrittura in dialetto salentino. Un incontro tra due mondi che raccontano le matrici artistiche dei Salento All Stars e di O’Zulu, rivisitando l’inciso di “Comu t’a cumbenatu”, un successo di Papa Ricki del 1992.  

Dicevano del fattore Puglia che genera artisti e che è diventato un modello per tutti coloro che pensano che con la cultura si possa persino mangiare, come testimoniano i principali istituti di ricerca economici. Il segreto sta nell’organizzazione: si chiama Puglia Sound e non ha fatto altro che sfruttare al meglio i Fondi europei del Fers. Puglia Sound lavora su tre obiettivi: 1) Export della musica locale per far conoscere i propri artisti fuori dalla regione di origine; 2) Live con spettacoli sul territorio; 3) Record che, come si può immaginare, riguarda sia la produzione discografica sia la messa in rete degli artisti. In principio, ed è forse il fattore che ha dato origine a Puglia Sound, fu la Notte della Taranta, affidata alla direzione artistica di fior di musicisti e diventata popolare grazie anche all’orchestra che ha coltivato la tradizione della pizzica e della tarantella portandola in giro per il mondo. La band di Apollonio è in realtà un collettivo musicale: solo qualche anno fa per il CD Made in Salento, un disco di inediti e di rivisitazioni in chiave reggae e combat folk, furono chiamati quaranta musicisti. Con l’Era del cigno bianco il gruppo si dirige su un terreno nuovo, sonorità che si staccano dalla tradizione accoppiate a testi crudi, fatti persino di slogan sindacali. La copertina dell’album è indicativa: un uomo di spalle corre su una pista in cui compaiono il numero tre e il quattro. Come dire, parafrasando Massimo Troisi, non ricominciamo da zero ma da quattro punti fermi: i diritti delle persone, il mare che unisce e non divide i popoli, l’amore per la bellezza, il potere della parola in musica.

Pubblicato su Extra Music Magazine, 26 maggio 2021

Planetario, le voci per i popoli senza voce

di Alfredo Franchini

Dal Planetario, così si chiama l’ultimo disco di Peppe Voltarelli, possiamo scorgere un pezzo della canzone d’autore internazionale. Canzoni indipendenti e libertarie cantate da quelle facce un po’ così… di chi va in giro per il mondo: Silvio Rodriguez, Luis Eduardo Aute, Joan Manuel Serrat, Joaquin Sabina e ancora Ferré, Bob Dylan, Endrigo, Modugno. È Voltarelli, il globetrotter della canzone, che ci conduce in un viaggio da Barcellona al Québec passando per i porti del Nord Europa. Una cartografia della canzone che lega l’Argentina con il suo tango, l’Europa francofona di Brel e Ferré, la Spagna con la trinità cantautorale Luis Eduardo Aute, Joan Manuel Serrat e Joaquin Sabina, la Russia di Vysotskij, l’Italia di Endrigo e Modugno. Il disco non cercatelo su Spotify perché Planetario, prodotto da “Cose di Amilcare” e pubblicato dalla raffinata editrice Squilibri nella solita veste di libro più CD, non sarà diffuso sulle piattaforme dominanti: editore, autore e produttore hanno ritenuto che almeno inizialmente l’opera deve vivere sul supporto fisico. E poi, diciamo la verità, le multinazionali quotate in Borsa trattano gli artisti in modo offensivo. Viva l’artigianato, dunque, se siamo di fronte a un lavoro diverso, da ascoltare tutto d’un fiato, un’Utopia lontano dallo stile supermarket.  Planetario è una costola strappata al Club Tenco e non è un caso che a produrlo sia Sergio Secondiano Sacchi, nuovo direttore artistico della rassegna sanremese, con “Cose di Amilcare”, l’organizzazione che opera in Catalogna per diffondere la canzone italiana. Amilcare altri non è che Rambaldi, il quale nel 1972 fondò il Club Tenco dopo aver trascorso buona parte della sua vita a distribuire i fiori di Sanremo nel mondo. Coltivava la bellezza, Amilcare, e Peppe Voltarelli ha voluto restituirne una parte con canzoni senza tempo, adoperando la sua voce come collante dell’album e seguendo un filo rosso che unisce le sensibilità di autori differenti. Dev’essere chiaro che non è un disco di cover: Voltarelli fa sue le canzoni, peraltro in gran parte notissime, cambia il ritmo, imprime nuovi timbri e dà loro un suono inedito. Il disco ha una chiara matrice politica e infatti è dedicato, oltre che a Gianni Mura, a un gruppo di dissidenti turchi: come dire la canzone dà voce a chi voce non ne ha. Il digipack di Squilibri è corredato da un racconto dello stesso Voltarelli, dalla prefazione di Sergio Secondiano Sacchi e da un saggio di Laura Lombardi; all’interno i dipinti di Anna Corcione, trame di un tessuto che lega musica e pittura. Tele con colori autunnali o a tratti chiari, proprio come la musica di Voltarelli, giunto ora al quinto album da solista. In precedenza, aveva fondato il Parto delle Nuvole pesanti e aveva scritto la celebre Onda calabra, ripresa con sapiente ironia da Antonio Albanese per il film Qualunquemente. Planetario è stato concepito nell’ultimo anno tra la Catalogna e l’Italia e ha coinvolto quattordici studi di registrazione. Le canzoni camminano sulle strade del mondo e Voltarelli, forte dei suoi vagabondaggi, può dire: ho visto!

Nell’antologia on the road di Voltarelli troviamo in apertura il tema della libertà, rivissuta attraverso la giornata del 26 aprile 1945: Piccola serenata diurna, cantato con Silvio Rodriguez; la canzone fu composta da Rodriguez poco dopo la rivoluzione di Castro e Guevara. La liberazione è quella dalla dittatura cubana di Batista ma qui è dedicata alla Resistenza italiana. Ci spostiamo poi a Rotterdam (di Ferré) con le “puttane, i marinai nerboruti e i ragazzi di strada”. Un salto di due anni e siamo nel Millenovecentoquarantasette: la canzone omonima, con un colpo di genio, è ambientata nella Napoli del dopoguerra anziché a Madrid come nel testo originale di Joaquin Sabina. È una piccola Napoli milionaria in musica, un’allegoria che racchiude quell’epoca dove “nelle edicole il settimanale “Oggi” trasudava di Faruk, Elisabetta e di Chanel/ chi non sapeva leggere imparava su Sogno, Bolero e Grand’hotel”. Dicevamo che molti dei grandi della canzone internazionale hanno cantato in questo CD assieme a Voltarelli. Su tutti, Silvio Rodriguez, cubano, voce dell’America latina, premio Tenco 1985 e Manuel Serrat, pioniere della canzone catalana il quale ha visto la sua canzone Saeta tradotta in precedenza da Guccini e Gino Paoli e portata al successo da Mina con il titolo Bugiardo e incosciente. La versione della tigre di Cremona in realtà poco ha a che fare con l’originale di Antonio Machado e Serrat dove lo scrittore si interroga sul futuro dell’intera Spagna.

Torniamo a Planetario: Amancio Prada che nel 2010 ricevette il premio Tenco ci conduce con Voltarelli sul Sentiero dove tornano i braccianti con il sangue tribolato dal fardello delle stagioni. È la biografia di Miguel Hernàndez, pastore condannato a morte nel 1940 in quanto repubblicano.  Poi Adriana Varela, maestra del tango canta nella Voce d’asfalto un testo di Cacho Castana. Un tango insolente sviluppato con piano fender, chitarre, percussioni, violino e contrabbasso. Joan Isaac intona Margalida dedicata alla donna di Puig Antich, un anarchico passato per la garrota del caudillo Franco nel 1974. Per la cronaca dopo l’esecuzione del giovane anarchico, nessuno seppe più niente di Margalida Bover Vadell, nemmeno Joan Isaac che scrisse la canzone. La fiaccola dell’anarchia in Spagna ritorna nella canzone di Luis Eduardo Aute, “All’alba”: si racconta dell’ultimo incontro tra un condannato a morte che sta per salire sul patibolo e sua moglie: “Se ti dicessi, mio amore/ che temo la mattinata… già sento che dopo la notte/ verrà la notte più lunga/ ti prego non mi lasciare all’alba”. La musica è sospesa sulle tastiere di Daniele Caldarini, il violino di Angapiemage Persico, il violoncello di Paola Colombo e il contrabbasso di Michele Staino mentre la voce strappata di Voltarelli suscita la nostra emozione. Nel porto di Amsterdam – canzone di Jacque Brel nella traduzione di Sergio Secondiano Sacchi – ritroviamo la vita dei marinai che fa storcere il naso ai censori della buona società tra pinte di birra, tovaglie unte e puzza di merluzzo. Ma è sul mare di Ostenda, (autori Leo Ferré e l’anarchico Jean-Roger Caussimon), che si possono ascoltare le onde e perdersi in un bar senza conoscere il senso della vita. È questo un passaggio del viaggio di Voltarelli che ci porta in Canada, nel Québec, con il brano A la manic. Da un posto sperduto del mondo si alza un canto, è una lettera d’amore scritta da un operaio impegnato nella costruzione di una diga: “Sapessi tu che noia qui a La Manic/ mi scriveresti un po’ di più a la Manicouagan”. La canzone è popolare tra i diciottomila lavoratori che dal 1959 al 1971 lavorarono nelle centrali elettriche del Québec. Di Bob Dylan, Voltarelli sceglie Winterlude: era un pezzo umoristico che il premio Nobel scrisse nel 1970, cinque anni prima che De Gregori, ispirandosi a quei versi, componesse Buonanotte fiorellino. Si tratta di un gioco di parole: winter (inverno) e interlude (interludio) ispirato al carnevale canadese.

Non sono certo canzonette fatte tanto per cantare ma brani con un notevole potere letterario e storico. Tra gli autori che si prendono idealmente per mano nel disco, due gli italiani: Sergio Endrigo, uno dei maggiori autori troppo spesso dimenticato, e Domenico Modugno. Dal dizionario endrighiano dei sentimenti e dell’impegno, Voltarelli sceglie “La prima compagnia”, suonando la chitarra classica cui si aggiunge quella acustica, l’ukulele di Caldarini, il sax di Maurizio del Monaco e uno strumento armeno, il duduk, suonato da Laura Pupo de Almeida. Amore e dolore sintetizzato dal sacrificio della prostituzione. Per Modugno, capostipite dei cantautori, la scelta va su Musetto: un brano che appare frivolo ma che in realtà, scritto nel 1955, invita la propria amata a pensare alle cose semplici. Gioca Modugno – nello stesso 45 giri c’era Io, mammeta e tu – eppure ironizza sia pure in modo lieve su certi stereotipi dei modelli femminili alimentati allora dai fotoromanzi. Del potente cantautore e scrittore russo Vladimir Vysotskij cui il club Tenco dedicò una serata nel 1993 da cui scaturì un CD di cover in italiano, viene tradotta Cavalli bradi con un arrangiamento raffinato in cui compare la tromba di Francesco Grigolo, il piano e le tastiere di Caldarini, il mandolino di Alex Aliprandi, il contrabbasso di Francesco Gaffuri e l’organetto di Alessandro D’Alessandro.

Voltarelli si prende anche una soddisfazione: fa tradurre in catalano una sua composizione, Marinai (premio Tenco 2010), e la canta assieme a Rusò Sala, chitarrista, vincitrice del premio Parodi nel 2013. Marinai diventa Els Mariners, scritta per il mare della Calabria che qui si fonde con le acque della Catalogna. Poco male: chi naviga incontra sempre gli stessi problemi. Il disco si chiude con “Sta città”, bonus track, in una versione strumentale che ci riporta alla tarantella e ai ritmi del Sud. Del resto, tutte le canzoni del CD parlano dei vari Sud del mondo. Dal planetario voltarelliano si scorge una luna sanguinante sulle bandiere degli anarchici che - come diceva Ferré - non son l'uno per cento ma credetemi esistono, in gran parte spagnoli chi sa mai perché. E nei versi di chi canta l’uomo e i suoi problemi eterni prevale un amore che deve fare i conti, oltre che con le garrote, con l’incapacità di dare agli altri senza pretendere nulla in cambio. Sono parole e note che arrivano all’anima per non dimenticare le tragedie umane e farci vedere cosa si vede dal planetario: quelle facce un po’ così’ di grandi autori magari poco conosciuti in Italia. Cose da ricordare, cose di Amilcare.

Pubblicato su Extra Music Magazine, 15 maggio 2021