di Alfredo Franchini
Nei lager le orchestre e il coro cambiavano la loro formazione continuamente perché i i musicisti venivano indirizzati nelle camere a gas. Altri orchestrali subentravano a chi era passato per il camino e la musica continuava a risuonare per i campi di Auschwitz, Birkenau, Mauthausen. Ce lo racconta “Un canto salverà il mondo”, il libro di Francesco Lotoro, in uscita il 20 gennaio per Feltrinelli. L’autore, pianista e compositore di Barletta, docente al Conservatorio di Bari, ha raccolto nell’arco di una trentina d’anni più di ottomila spartiti redatti di nascosto dai musicisti detenuti nei lager; compositori, direttori d’orchestra che hanno lasciato una testimonianza, vergando le note su carta di ogni tipo mentre aspettavano la morte.
Una musica, un suono, un po’ come l’ultima sigaretta del condannato. Per alcuni fu un atto di resistenza, per altri un modo di sopravvivere al gelo, alle ferite del corpo e dell’anima. Lotoro ha fondato l’istituto di Letteratura musicale Concentrazionaria, un immenso patrimonio artistico e umano. Una sorta di Spoon River delle sette note. La musica in quell’orrore serviva a tutti: copriva il rumore della fucilazione, distraeva l’attenzione dei condannati in marci verso il patibolo, accoglieva i prigionieri all’arrivo dei treni. E, infine, accontentava gli ufficiali tedeschi che conoscevano le opere dei grandi compositori del Romanticismo, rappresentanti dello spirito borghese dell’Ottocento. Tra le opere più suonate c’è il Requiem di Verdi che venne rappresentato più volte e una di queste è passata alla storia.
Siamo nel lager di Terezìn e l’orchestra è composta esclusivamente da deportati ebrei consapevoli di dover morire. C’è un giovane musicista, Rafael Schachter, che sale sul palco per dirigere la messa verdiana. Non ci sono dubbi sul pubblico: da una parte i prigionieri che contano le ore, dall’altra gli ufficiali tedeschi e, in prima fila, c’è addirittura Adolf Eichmann, il boia che portò a morire gli ebrei ungheresi. “Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis”, è l’invocazione iniziale eseguita in modo sommesso. Schachter è sicuro: “Canteremo ai nazisti quello che non possiamo dire loro”. Schachter ottiene il permesso di non salutare Eichmann e non era facile perché una simile decisione avrebbe potuto rendere più breve la strada verso la camera a gas. Invece, l’ufficiale nazista applaude l’esibizione nonostante fosse stato informato che il direttore era ebreo e non intendeva salutarlo. Gli orchestrali non hanno gli spartiti, eseguono le parti a memoria; il suono è potente e il boato orchestrale del pauroso Dies irae manda alle SS un messaggio facile da decifrare: il giorno del giudizio si avvicina anche per loro. Dunque, che cosa è stata la musica dei lager? Francesco Lotoro lo spiega in questa intervista per Extra Music Magazine.
_ Lei ha raccolto ottomila spartiti scritti da prigionieri destinati alla camera a gas. Può dirci qual era il suono dominante nei campi di concentramento? Immagino che le composizioni fossero tutte in tonalità minore…
“E si sbaglia perché i musicisti hanno scritto di tutto. Il musicista - e parlo di chi componeva - anche in quelle condizioni psicologiche non si sentiva un profeta. Spesso usava il suono per esorcizzare il trionfo della morte, capovolgere le cose. Lo si deduce anche dall’accostamento casuale di certi strumenti musicali che in altre circostanze un direttore d’orchestra non avrebbe mai inserito nell’opera. Dobbiamo anche dire che spesso le scelte erano subordinate ai pochi strumenti disponibili. Ogni campo aveva la carpenteria, la falegnameria ma non c’erano i liutai. Solo in qualche caso, ad esempio a Dakau, ci fu qualche musicista autorizzato a portare con sé lo strumento”.
_ Nelle composizioni recuperate quindi non c’è solo musica classica?
“No, sono presenti tutti i generi, persino il jazz e il country americano che erano interdetti dal Reich. Tenga conto che i primi a voler ascoltare la musica erano i tedeschi, ce l’hanno raccontato i sopravvissuti”.
_ Io credevo che il ricorso alla musica ad Auschwitz fosse determinato dalla necessità di distrarre gli aguzzini. Lei ci sta dicendo che lo scopo non era solo quello?
“La musica si adattava alle esigenze dell’essere umano. Se ne faceva un uso perverso, ad esempio, nel block femminile di Birkenau. I boia, subito dopo aver ucciso le donne, per rilassarsi, chiedevano all’orchestra di suonare musica di Grieg o di Schumann. Allo stesso tempo, Primo Levi, dall’infermeria di Auschwitz, ascoltava un gruppo orchestrale che intonava canzoni popolari per rimarcare l’entrata e l’uscita dei gruppi di comando oppure per accogliere una grande autorità proveniente da Berlino. E ovviamente ne provava fastidio”.
_ Levi in “Se questo è un uomo” fa cenno al folk tedesco e dice che “quelle canzoni saranno l’ultima cosa che dimenticheremo”.
“Conosciamo tutti il dramma esistenziale che Levi si è portato addosso. Per quanto riguarda il riferimento fatto alle canzoni tedesche mi viene in mente l’orchestra che continuava a suonare mentre il Titanic affondava: fu l’ultima cosa che sentirono i passeggeri del transatlantico, mica videro l’iceberg contro cui stavano andando a cozzare”.
_ Possiamo dire che esisteva una musica che si doveva suonare per necessità e un’altra nascosta per non suscitare le ire delle belve umane?
“Ovviamente si assolveva agli ordini delle autorità: si doveva suonare all’arrivo dei treni per espletare una funzione psicologica così magari un deportato, dopo il terrificante viaggio in treno, ascoltando l’orchestra, poteva immaginare di essere arrivato in un posto non del tutto malvagio. Certo ai prigionieri politici era vietato scrivere la musica, la loro penna era pericolosa”.
_ Ma sul piano pratico come si poteva comporre senza avere un pentagramma?
Non era quello il problema, la carta si trovava e sarebbe bastato tracciare le linee con la china. Ma non si poteva fare: i detenuti politici hanno scritto in segreto adoperando la carta igienica. Lo fece, ad esempio, Rufold Karel che soffriva di dissenteria e per questo gli fu consentito di trascorrere due ore al giorno nell’infermeria. Lui scriveva sulla velina e allo scadere del tempo consegnava la composizione a un suo allievo. I fogli venivano arrotolati e inseriti nella biancheria sporca che doveva essere lavata fuori dal campo. In un altro caso l’ebreo olandese Hans Van Collem, condannato ai lavori forzati, compose il Salmo 100 sulla coltivazione di patate dove lavorava dalla mattina alla sera. Bisognava arrangiarsi, così com’è capitato a tutti noi di lasciare un’impronta sulla sabbia, lui disegnava il pentagramma e le note sulle patate chiedendo ai compagni di ricordare una o due battute. Tornati al lager, quelle battute venivano trascritte notte tempo sulla carta igienica grazie a una memoria collettiva. I brani musicali venivano pure provati, in genere la domenica pomeriggio quando le guardie tornavano a casa e c’era meno sorveglianza. Ma si poteva suonare solo nelle latrine dei campi”.
_ Mi chiedo come gli ufficiali nazisti potessero ascoltare il Requiem di Verdi, non provare compassione e continuare a uccidere. E allo stesso tempo mi chiedo come si fa a scrivere la musica alla cui base c’è l’armonia stando all’inferno.
“Dipende dai punti di vista. Le racconto di due posizioni antitetiche: Aleksander Kulisiewicz, deportato sopravvissuto al lager, morì nel 1973, riteneva che la musica potesse aiutare il prigioniero sul piano psicologico e intellettuale. Al contrario Simon Laks che dirigeva l’orchestra maschile di Birkenau, sosteneva che la musica serviva solo ai carnefici. Avevano ragione tutti e due. Dopo la guerra decisero di incontrarsi e lo fecero a Parigi. Quello che doveva essere un incontro divenne uno scontro: Kulisiewicz intendeva recuperare tutte le melodie scritte e nessuno più del direttore d’orchestra avrebbe potuto dargliele ma Laks gli rispose che non c’era stata alcuna musica perché era servita solo ai nazisti”.
_ E che cosa possiamo dedurre da queste posizioni contrapposte?
“Che non ci può essere una sintesi: la musica serviva ai capò, alla Gestapo, agli ufficiali delle SS ma anche ai prigionieri deportati. Ci sono scene paradossali, immortalate anche dalle fotografie; capitò, infatti, che alcuni ufficiali nazisti che sapevano suonare uno strumento si unissero all’orchestrina dei prigionieri ebrei”.
_ A proposito di foto terribili ce n’è una che riguarda l’impiccagione di un detenuto polacco che era riuscito a evadere dal lager. I nazisti lo riacciuffarono e subito obbligarono una decina di deportati a formare un'orchestrina che nella foto accompagna il condannato al patibolo.
“In quell’immagine si vede un capò che suona la fisarmonica accanto ai prigionieri”.
_ Agli ebrei fu anche imposto di cantare canzoni che denigravano il loro popolo.
“Avvenne in alcuni campi, come a Treblinka, dove prevaleva l’umiliazione e venivano imposte le canzoni antisemite. Attenzione: non c’era nulla di improvvisato, tutto era pianificato contro il popolo ebraico”.
_ Da trent’anni lei raccoglie e suona la musica composta nei lager e ha dato vita alla maggiore biblioteca concentrazionaria. Che cosa l’ha spinta a fare questa ricerca?
“E’ il minimo che si possa fare per restituire dignità ai musicisti deportati. La ricerca ha assorbito tutta la mia vita per reperire gli scritti, gli strumenti, i materiali registrati su vecchi nastri meccanografici. Io stesso possiedo un violino che appartenne al polacco Jon Hillebrand rinchiuso ad Auschwitz”.
_ Facciamo un balzo in avanti e veniamo all’oggi: in Afghanistan i Talebani hanno vietato la musica. È così pericolosa per le dittature?
“Certo, la potenza del suono ha annichilito il Reich e ha rivelato l’esistenza dell’Europa prima che fosse fondata la comunità europea. Nel 1938, a Vienna sulla banchina del treno che lo avrebbe portato a Dachau, l’austriaco Herbert Zipper intonò l’inno alla gioia in faccia a un soldato tedesco, seguito nel canto da centinaia di altri prigionieri. Ecco l’Unione europea nacque allora e oggi l’inno alla gioia è l’inno dell’Unione europea. Non ci poteva essere niente di più distruttivo che cantare in tedesco – gli austriaci parlavano la stessa lingua – in faccia agli oppressori tedeschi”.
Al Museo del Prado di Madrid è esposto un quadro di Hieronymus Bosh intitolato “L’inferno del musicista” e non è un caso che accanto vi sia un dipinto di Pieter Brueghel, “Il trionfo della morte”: corpi di uomini e donne accatastati in un recinto-bara e appollaiato sopra il direttore di un’orchestra di scheletri che scandisce il tempo di ingresso per l’inferno. Questo era il suono dei lager.
Pubblicato su Extra Music Magazine, 19 gennaio 2022